Post-democrazia: nella società digitale siamo più sudditi che cittadini

di Alfonso Celotto (huffingtonpost.it, 3 gennaio 2023)

Per secoli, forse per millenni, siamo stati sudditi. Cioè sottomessi al potere di un Monarca superiore alle leggi perché regna per grazia di Dio, prima ancora che per volontà per la nazione. Come diceva Polibio, i Re nascono per comandare. Noi per obbedire, perché «senza obbedienza il diritto del potere sarebbe vano, e di conseguenza lo Stato non sarebbe affatto costituito» (sono parole di Hobbes, De Cive, VI, 13).

Negli ultimi tre secoli abbiamo combattuto per diventare cittadini, cioè parte attiva della decisione democratica. I nostri predecessori, fino alle rivoluzioni americana e francese, hanno lottato per l’eguaglianza, la legalità e i diritti. È così che abbiamo conquistato i diritti civili, cioè le libertà fondamentali rispetto allo Stato. Poi i diritti politici, cioè la partecipazione diretta al governo dello Stato, mediante elezioni libere, col tempo a suffragio universale anche femminile. Ancora, sono arrivati i diritti sociali, cioè le prestazioni statali a tutela della salute, dell’istruzione, della previdenza, del lavoro, per consentire a tutti di migliorare la propria condizione sociale e quindi poter partecipare attivamente al gioco della democrazia. In Italia il grande passaggio si è formalmente compiuto il 2 giugno 1946, con il referendum con si è scelto di diventare cittadini di una Repubblica e non più sudditi di un Re. Negli ultimi decenni abbiamo tanto discusso per superare le barriere della cittadinanza nazionale ed estendere diritti, prima ancora che doveri, anche gli stranieri, in ambiti sempre più vasti (si pensi alla cittadinanza dell’Unione Europea).

Ora, con lo sviluppo della società digitale ci troviamo paradossalmente a retrocedere: diventiamo ogni giorno sempre di più consumatori-utenti di grandi reti e social network, a cui partecipiamo come sudditi più che come cittadini. Pensiamoci bene. Una volta aperto il nostro profilo, che diritti abbiamo nel mondo digitale? E nei social? Abbiamo modo di partecipare alle decisioni su come gestire la Rete? Possiamo contribuire a scrivere le regole dei social network? O, in fondo, sarà sempre e soltanto l’Elon Musk di turno a decidere se Trump o Andrew Tate possono tenere aperto il profilo su Twitter? Quando abbiamo un problema con il nostro profilo possiamo fare ricorso a un giudice terzo e imparziale, secondo i dettami della divisione dei poteri, o ci dobbiamo limitare a chiedere “giustizia” allo stesso gestore del social? Su questo versante molto interessante è l’esperimento di Facebook di creare l’Oversight Board, cioè un Tribunale indipendente per i ricorsi degli utenti.

La questione diventa ancora più paradossale se pensiamo che invece proprio la Rete e i social sono diventati strumenti per la democrazia: pensiamo alla Piattaforma Rousseau del MoVimento 5 Stelle o alla pubblicità dei partiti tradizionali in Rete per le elezioni. Dai dati diffusi da Meta, per le politiche 2022, Fratelli d’Italia ha speso 140mila euro di pubblicità, la Lega 69mila euro, il Pd 46 mila e così via. Ci rendiamo conto che la democrazia non può non passare sulle reti digitali, eppure le reti digitali stesse sono molto poco democratiche. Siamo in piena post-democrazia. E ancora non sappiamo quali ne saranno gli sviluppi. Penso, tuttavia, che sarà una delle grandi sfide dei prossimi anni comprendere come portare la democrazia all’interno del mondo digitale. Con percorsi tutti ancora da scrivere, per capire come potremo non limitarci a essere passivamente consumatori o utenti, ma cittadini del “nuovo mondo”.

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