Giocando a frisbee con Nerone nella terra dei like

di Guia Soncini (linkiesta.it, 23 agosto 2021)

Quando i miei coetanei avevano vent’anni, nei ridenti anni Novanta, nella politica italiana arrivò la smania del nuovo. Ogni stagione ha il suo nuovo che avanza, il nostro si chiamava Lega o Berlusconi invece che Di Maio o Di Battista, ma il meccanismo psicologico sempre quello era. Paolo Rossi, allora il più tranchant tra i comici in ascesa, aveva una battuta che faceva così: il nuovo che avanza al vecchio gli telefona. In questo lunghissimo weekend di proposte politiche deliranti da parte dei nuovi talenti che ci possiamo permettere – non più Di Maio e Di Battista, ormai venerati maestri – ho ardentemente desiderato lo scatto alla risposta.

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Che tutto questo nuovo che avanza facesse, ogni tanto, una telefonata a qualcuno che capisse qualcosa. Di politica, di governo, anche solo di logica formale. Le Amministrative sono quelle elezioni che ogni volta ci fanno rievocare lo statista di Antonio Albanese, quello di «cchiù ppilu ppe’ tutti», e il precedente verdoniano, quello che voleva asfaltare il Tevere (tra le proposte sentite nelle elezioni romane di questo secolo, la meno peggio). È un settore assai competitivo, quello dello spararla grossa tra candidati locali, figuriamoci poi quando questi candidati hanno per ragioni assortite una notorietà nazionale.

Di Carlo Calenda si possono dire molte cose, e per quasi tutte si verrà poi insultate su Twitter. Quindi oggi sceglierò: nipote di Luigi Comencini; ex ministro; secondo chi si occupa di politica romana, in risalita nelle quotazioni come candidato sindaco; secondo chi conosce i romani, privo di speranze in quanto efficientista nella città con l’elettorato più filocialtrone del mondo; isterico di buona famiglia (autocit.). Meno di quarantott’ore fa, Calenda sembrava essersi assicurato la vittoria nel settore sparate del weekend con un video in cui diceva che, siccome nei Musei Capitolini ci sono troppe statue, bisogna accorpare tutte le statue romane in un unico museo, acciocché il turista, stremato dalla visione di qualche decina di esse, potesse venire schiantato dalla visione di centinaia di statue romane. Secondo Calenda, che confonde i musei con un sussidiario, in questo modo i turisti finalmente saprebbero cosa fosse un proconsole e capirebbero la politica e la storia di Roma e il mondo (e forse voterebbero persino meglio, il sottinteso pare questo). I turisti non votano a Roma, quindi la proposta di Calenda è di grande altruismo, e gli stronzissimi addetti alle belle arti che l’hanno spernacchiato sono degli ingrati. Tra di essi, segnalo un messaggio ricevuto da un archeologo: «Ha fatto due video in cui spiegava il Foro romano. Sembrava Michetti».

Michetti è il candidato di centrodestra, fin qui giustamente irriso da un Calenda che come tutti noi trovava esilarante egli rispondesse con brevi cenni della storia di Roma a qualunque domanda pratica. (Domanda: Come pensa di risolvere il problema del traffico? Risposta: Noi abbiamo avuto Nerone. Sto inventando, ma neanche poi troppo). Poi Calenda deve aver deciso di applicare lo schema «prima ridono di te, poi ti imitano». Povero Calenda, aveva cominciato così bene, non si aspettava l’Inquisizione spagnola né la discesa in campo delle Sardine. Cioè, delle Sardine: di Mattia Santori, il ricciolino col cerchietto che secondo un programma di cucina della Cnn è il Che Guevara italiano, secondo gli intellettuali bolognesi è il più cretino dei quattro (le Sardine con un po’ di celebrità sono quattro, come gli amici al bar di Gino Paoli), e secondo me è il Pancho Pardi che i millennial si meritano (noialtri ci saremmo meritati di meglio di Pancho Pardi, ma la storia a volte è ingiusta). Mattia Santori, che il 4 agosto diceva a Repubblica che si sarebbe candidato a sostegno di Matteo Lepore, il 5 smentiva, e il 21 ci spiega perché si candida con un post su Facebook scritto secondo lui con afflato poetico e secondo me con triplette da liceale, del quale vi ricopierò una sola riga.

Prima di ricopiarvela, permettetemi di fare una cosa che non faccio mai mai mai: parlare di me. In un libro che ho pubblicato qualche mese fa, c’è una paginetta in cui ricopio uno status Facebook di Santori. Nella prima stesura del libro il lunghissimo status in cui Santori frignava ferito da una vignetta prendeva più spazio, poi una delle pochissime persone di cui mi fido abbastanza da farle leggere cose in divenire mi ha fatto un’osservazione: ma tu sei proprio sicura di voler dare tutto questo spazio a una Sardina? L’egemonia che le persone esercitano su di te la riconosci così: non solo ho tagliato le pagine a lui dedicate nel mio tomo, ma mi faccio un sacco di problemi anche a ricopiare ora tutte le ragioni della sua candidatura. Sono proprio sicura? Solo una, dai. «Perché sogno il primo stadio del frisbee a Bologna». E quindi è finita così, che noi già nati troppo tardi per chiederci se stessimo con Togliatti o con Vittorini, noi privati entro il liceo persino della possibilità di dire se stessimo coi russi o con gli americani, noi che mai abbiamo conosciuto un dualismo decente, un’alternativa non imbarazzante, noialtri invecchiamo così, a dover scegliere se faccia più ridere lo stadio del frisbee o il museo della romanità. In una città in cui nel 2021 non c’è la raccolta porta a porta dei rifiuti, tu cosa chiedi alla nuova giunta? Lo stadio del frisbee, diamine. In una città in cui i rifiuti non li raccolgono neanche dai cassonetti, qual è la priorità? Il museo della romanità, perdindirindina.

Il nuovo che avanza ha afflati poetici e si annoia facilmente: mica può perder tempo coi rifiuti, i trasporti, le infrastrutture. Santori conclude il suo status dichiarando «Io odio la vecchia politica», vecchia politica che non si sa di preciso cosa sia ma siamo certi non desse il dovuto peso alla questione istituzionale del frisbee. Calenda, competitivo, subito stigmatizza che Letta abbia candidato la Sardina (un’eccezione rispetto alle sue invece lucidissime priorità abituali, tipo il voto ai sedicenni), definendo Santori un «ragazzotto senza arte né parte». Quell’altro gli risponde dandogli del «signorotto con arte e soprattutto con parte», e si sa che quando ti parafrasano hai vinto tu. Ma, a parte l’egemonia lessicale di Calenda su Santori, c’è che uno si esprime via Twitter e l’altro via Facebook: vivono sui social come due tardoadolescenti, una fascia d’età che ormai va dai venticinque ai sessantacinque. Nei sette anni trascorsi da «Beppe, esci da quel blog», sono andati tutti ad abitare nella terra dei like. Il nuovo che avanza risparmia sullo scatto alla risposta e non mi meraviglierebbe se subaffittasse pagine social da Grillo (già nuovo che avanzava, a raccontarlo oggi non sembra neanche vero). Quasi quasi rivaluto Michetti. Come termovalorizzatore, Nerone non era affatto male.