Gli Oscar sono sempre stati politici, e quest’anno non sarà diverso

di David Canfield (vanityfair.it, 26 marzo 2022)

L’anno scorso, in questo periodo, Donald Trump definiva gli Oscar troppo «politicamente corretti», accusando lo spettacolo di essere utile come piattaforma per il Partito Democratico e suggerendo che l’Academy si fosse allontanata dalla sua funzione iniziale di onorare i film senza riconoscere il mondo che li circonda. A parte la natura generale e sconclusionata della dichiarazione, la sua premessa implicita era sbagliata: gli Oscar hanno sempre messo in mostra momenti politici. Di conseguenza, i tentativi di lunga data dell’Academy di raggiungere una più ampia rilevanza culturale saranno sicuramente rispettati anche questa domenica sera, quando i padroni di casa Wanda Sykes, Amy Schumer e Regina Hall metteranno in scena uno spettacolo stellare in un momento di guerra.

Mariel Tyler – Getty Images

L’invasione della Russia in Ucraina è già stata evidenziata e condannata da Maria Bakalova ai Critics Choice Awards, da Kristen Stewart ai Film Independent Spirit Awards, e da altri nel circuito dei precursori, e i colori e le bandiere ucraine sono state visibili su una vasta gamma di tappeti rossi. Nonostante pare che il desiderio di Schumer di far comparire il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy in collegamento via satellite probabilmente non si realizzerà perché è ovviamente occupato in altro, di certo il sostegno alla lotta del suo Paese sarà un fattore significativo nel corso della cerimonia. Non sarebbe nemmeno la prima volta che la tragedia in Ucraina raggiunge il palco dell’Academy. Nel 2014, il vincitore come attore non protagonista Jared Leto (per Dallas Buyers Club) aveva dedicato il suo discorso a coloro che vivono i disordini in Crimea, che le forze russe avevano recentemente conquistato, così come in Venezuela: «A tutti i sognatori là fuori nel mondo che stanno guardando questa sera… voglio dire che siamo qui, e mentre lottate per realizzare i vostri sogni, per vivere l’impossibile, noi stiamo pensando a voi stasera».

I vincitori spesso usano il loro grande momento per far luce sulle cause più vicine a loro, o particolarmente rilevanti nei titoli dei giornali. Durante l’era Trump, tali discorsi sono stati definiti dall’aumento dell’ostilità verso le popolazioni emarginate, compresi gli immigrati musulmani e latinoamericani. Nel 2019, Spike Lee ha usato il suo discorso di accettazione, per BlacKkKlansman, per mobilitare gli elettori alle elezioni del 2020 e sottolineare «la scelta morale tra amore contro odio». Asghar Farhadi ha rifiutato di partecipare alla cerimonia del 2017, nonostante fosse stato nominato; e quando il suo film The Salesman ha vinto come miglior film straniero, il regista iraniano ha scritto una risposta sprezzante che è stata letta sul podio a suo nome: «La mia assenza è per rispetto al popolo del mio Paese e a quelli di altre sei nazioni che sono stati mancati di rispetto alla legge disumana che vieta l’ingresso degli immigrati negli Stati Uniti». E, infine, diversi discorsi negli ultimi quattro anni hanno parlato del movimento #MeToo.

Naturalmente, tutto questo non è iniziato con Trump. Tornate indietro agli anni Quaranta e vedrete l’industria affrontare per la prima volta la prospettiva di assegnare i premi in tempo di guerra. Gli Oscar furono quasi cancellati nel 1942, dopo il bombardamento di Pearl Harbor, prima di procedere con aggiustamenti strutturali e modifiche del dress code. Il vincitore come attore non protagonista Donald Crisp indossò la sua uniforme militare e, alla cerimonia dell’anno successivo, tornò a leggere un discorso del presidente Franklin D. Roosevelt: «Nella guerra totale, i film, come tutti gli altri sforzi umani, hanno un ruolo importante da svolgere nella lotta per la libertà e la sopravvivenza della democrazia». Entrambe le cerimonie operarono all’ombra del conflitto globale e osservarono attentamente quel senso di discordia.

Quando Jane Fonda vinse il premio come migliore attrice per Klute nel 1972, al culmine della guerra del Vietnam, era una figura intensamente controversa per la sua irremovibile opposizione al conflitto. Il suo discorso di 15 secondi fu tanto acuto quanto qualsiasi dichiarazione o gesto travolgente avrebbe potuto essere, ringraziando «tutti voi che avete applaudito» prima di concludere: «C’è molto da dire e non lo dirò stasera». Qualche anno dopo, il film contro la guerra Hearts and Minds vinse l’Oscar per il miglior documentario e, dopo che il produttore Bert Schneider lesse un telegramma della delegazione del Viet Cong agli accordi di pace di Parigi che comunicava amicizia, il co-conduttore Frank Sinatra fu incaricato di chiarire che l’Academy non era responsabile per «qualsiasi riferimento politico fatto nel corso del programma».

Gli anni Settanta portarono anche il momento forse più tristemente politico nella storia degli Oscar, quando Marlon Brando vinse come miglior attore per Il Padrino ma rifiutò la statuetta. L’attivista per i diritti degli indigeni americani Sacheen Littlefeather fu mandata sul podio al suo posto, e a suo nome rimproverò «il trattamento degli indiani d’America da parte dell’industria cinematografica» e richiamò l’attenzione sulla continua occupazione di Wounded Knee. E se non avete visto Vanessa Redgrave dire «i teppisti sionisti» nel suo discorso di accettazione del 1978, in risposta alle proteste per il suo sostegno all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, beh, suona anche meglio di come si legge.

Il dissenso sul palcoscenico degli Oscar ha di nuovo raggiunto nuove vette durante la guerra in Iraq; una serie di vittorie ha fornito l’opportunità di critiche televisive nazionali all’amministrazione di George W. Bush. Quando Bowling for Columbine di Michael Moore ha vinto il premio come documentario nel 2003, il regista ha gridato: «Siamo contro questa guerra, signor Bush! Si vergogni, signor Bush!». La maggior parte del pubblico ha fischiato. Il successivo vincitore del premio, Errol Morris (per The Fog of War), è ripartito sullo stesso terreno di Moore, ricevendo un’accoglienza più calda in sala che rifletteva un tono più pacato (e una diversa opinione sulla guerra in Iraq): «Quarant’anni fa questo Paese è sceso nella tana del coniglio in Vietnam e sono morti milioni di persone. Temo che stiamo scendendo di nuovo in una tana di coniglio, e se la gente può fermarsi a pensare e riflettere su alcune delle idee e delle questioni in questo film, forse ho fatto qualcosa di dannatamente buono qui».

Prima di tutto questo, però, c’era stato l’11 settembre a mettere gli Oscar in una posizione simile a quella della seconda guerra mondiale. Le voci di rinvio abbondarono, il tappeto rosso fu notevolmente ridimensionato per problemi di sicurezza, e la trasmissione procedette come una sorta di nobile causa. Poi il presidente dell’Academy Frank Pierson disse che lo spettacolo doveva andare avanti, perché, se non lo avesse fatto, «i terroristi avrebbero vinto». Di conseguenza, Tom Cruise aprì con una sconclusionata chiamata all’azione sul fare arte in tempi di disordini; e Woody Allen – che, notoriamente, non aveva mai partecipato agli Oscar – fece un’apparizione a sorpresa dopo essere stato presentato come un «punto di riferimento di New York», ricevendo una standing ovation che sembrava raddoppiare per lui e per la città che era stata così brutalmente attaccata. Il tono era solenne, doloroso e solidale.

Quest’anno, tra le questioni di giustizia sociale di attualità negli Stati Uniti – dalla legge “Don’t Say Gay” della Florida alle misure anti-aborto adottate dagli Stati di tutto il Paese – c’è un sacco di spazio per il dissenso e l’attivismo mentre torniamo al Dolby Theatre. Ma con gli americani che continuano a radunarsi intorno all’Ucraina, potrebbe esserci la possibilità di apparire uniti.