Pubblicità e social network nelle elezioni americane

di Pietro Sansone (ilpost.it, 10 novembre 2020)

Le elezioni presidenziali americane del 2020, come e più delle precedenti, hanno rappresentato un grande campo di battaglia per comunicatori di ogni genere. Dai mezzi tradizionali ai social media, i due schieramenti hanno dato fondo a tutte le risorse per risultare vincenti, in un contesto in cui la pandemia galoppante ha reso difficili se non impossibili comizi e comunicazione face-to-face. Possiamo dire che la comunicazione democratica sia stata vincente? Un’analisi post-voto di Advertising Age ha fotografato numeri e caratteristiche della macchina propagandistica democratica. Uno sforzo enorme in termini di varietà di iniziative, creatività e budget, che non ha portato alla grande affermazione in cui molti speravano.

euronews.com
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Milioni di dollari sui media, non sempre ben spesi

Partiamo dai numeri: per prevalere negli Stati contesi, i Democratici hanno speso nelle ultime settimane della corsa alla Casa Bianca 7,4 milioni di dollari (per ciascuno dei voti elettorali in palio) per spot radio e tv in Pennsylvania contro 4 dei Repubblicani; 6,5 in Arizona contro 4,7; 7,1 in Wisconsin contro 4,0. In uno Stato-chiave come il Michigan siamo addirittura a 5,7 per i Dem contro 1,9 dei Repubblicani. A livello nazionale, mettendo insieme tutti gli Stati e tutte le campagne, primarie incluse, la spesa in spazi media dei Democratici è arrivata alla cifra enorme di 3.820 milioni di dollari contro i 2.271 dei Repubblicani. Le grandissime somme di denaro spese sono state in molti casi allocate con scarsa avvedutezza. Ad esempio, appare poco sensata – secondo Ad Age – l’idea dello staff di Biden di spendere 6,1 milioni di dollari su Fox News nel periodo post-primarie. Sono meno dei 6,6 spesi sulla Cnn ma sono tanti, troppi, e uno sforzo inutile, su uno dei media che ha costituito la voce permanente del trumpismo, con un pubblico che lo ha abbracciato come una nuova religione.

Creatività che non raggiunge il bersaglio

Lo sforzo democratico è stato enorme anche dal punto di vista creativo. Advertising Age – nella sua analisi – si è soffermata in particolare su una serie di spot, rivolti alle generazioni più giovani, che hanno giocato su un ovale animato che riproduceva alcune celebri affermazioni di Trump, per poi invitare a cancellarlo (e a zittire il Presidente) una volta che questo ovale si trasformava nel cerchio da annerire sulla scheda elettorale per votare Biden. Spot splendidi per creatività e qualità della produzione, ma probabilmente poco efficaci nel far cambiare idea a chi aveva già un’opinione. Addirittura, portatori di un messaggio negativo (“la Sinistra che vuole cancellare gli avversari”) per lo zoccolo duro trumpiano e ultraconservatore. L’effetto indotto, alla fine, è quello di convincere ancora di più delle sue idee qualcuno del campo avverso.

Come spesso succede quando la contesa politica si svolge tra poli così fortemente contrapposti, buona (troppa?) parte della propaganda democratica è stata orientata a spiegare perché rigettare Trump invece che a convincere del perché andava scelto Biden. Rispondendo così a una identica offensiva che i Repubblicani avevano scatenato nelle elezioni 2016. Un ruolo importante in questo predominio della comunicazione “contro-” è stato giocato da gruppi come The Lincoln Project. In questo caso, i Democratici proprio non c’entrano. Si tratta infatti di conservatori, dunque potenziali elettori repubblicani, che hanno rigettato Trump iniziando un’offensiva comunicativa senza precedenti per evitare una sua rielezione. Le vicende del rapporto tra il Presidente uscente e TLN sono ricostruite nel dettaglio dal New Yorker: una lunga storia di accuse e dispetti reciproci che ha portato a The Lincoln Project una visibilità e una popolarità mai viste, soprattutto nel campo a loro originariamente avverso. Guardando a posteriori la lunga serie di video di TLN e i loro contenuti, quanto può avere giovato alla causa l’aver puntato solo a ridicolizzare l’avversario?

I social network “interventisti”

Cosa dire, invece, dei social network? Si è spesso detto della loro importanza per le due elezioni di Obama e poi per il successo di Trump. Negli ultimi anni, Facebook e Twitter in particolare sono stati l’arena, il luogo dove le posizioni contrapposte si sono misurate e scontrate, con mezzi leciti e non. Com’è noto, il trumpismo si è alimentato di un mix di posizioni ultra-conservatrici, bufale e teorie cospirazioniste. L’arrivo di attori “cattivi” sui social è stato una costante delle ultime elezioni. Dopo gli hacker russi, ora è stato il turno di QAnon e delle sue fantasiose idee sulle cospirazioni, che Trump ha per lo più minimizzato senza prenderne le distanze.

Una novità importante è stato l’attivismo crescente di piattaforme che oggi smettono di essere un veicolo passivo e si spingono a eliminare o contrassegnare i contenuti come fraudolenti, falsi o potenzialmente pericolosi. Sono state le elezioni in cui abbiamo visto giornalisti interrompere il Presidente uscente per segnalare che stava dicendo falsità; ma abbiamo anche visto Facebook e Twitter aggiungere delle precisazioni o delle note ai post di Trump contenenti affermazioni non provate. L’“interventisimo dei social” è una tendenza che probabilmente continuerà: solo lottando contro hate speech e fake news, e lavorando per abbassare l’intensità degli scontri tra opinioni contrapposte, le piattaforme più popolari potranno trattenere utenti e soprattutto investitori pubblicitari. Alcuni indicatori hanno difatti già evidenziato lo spostamento di utenti americani (e conseguente attenzione degli advertiser) verso social network come Pinterest o Snapchat. Luoghi più sicuri per le marche, dove ci si intrattiene di più e si discute animatamente di meno.

Social comunque fondamentali

Dove i social sono stati importanti e probabilmente decisivi? Nella mobilitazione, e dunque nei numeri senza precedenti dei partecipanti a questa elezione. In settimane in cui l’emergenza sanitaria ha fatto passare a tutti molto più tempo online, il pubblico ha usato le piattaforme social per informarsi e discutere, non solo di politica ma anche di società (pensiamo a movimenti come Black Lives Matter). Facebook, Twitter e Instagram hanno molto contribuito a dare informazioni per registrarsi e per votare, anche per posta. In questo senso, una quota importante del merito per l’affermazione di Biden, i social network ce l’hanno. Entrambi i candidati hanno avuto molti più voti rispetto alle precedenti elezioni, ma la grande mobilitazione ha giovato ai Democratici: ha portato in massa a esprimersi un elettorato che, nella contesa del 2016 tra Trump e Hillary Clinton, aveva tanto faticato ad accettare di votare per una candidata non apprezzata da tutti.