Trump lacera le Chiese d’America

di Massimo Faggioli (huffingtonpost.it, 3 giugno 2020)

Nel giro di due giorni, 1 e 2 giugno 2020, Trump e la sua amministrazione sono riusciti a esporre l’osceno intreccio tra politica e religione nell’America contemporanea. Prima facendo infuriare la Chiesa episcopaliana (anglicana, di orientamento liberal-progressista) per aver organizzato una photo opportunity con la Bibbia in mano di fronte a una delle chiese storiche della Capitale, la St. John’s Church, dopo aver sgomberato manu militari la manifestazione pacifica di fronte alla Casa Bianca.Trump_JohnPaul_II_Church_WashingtonIl giorno dopo è toccato ai cattolici, con un’altra photo op, questa volta al santuario di Washington dedicato a Giovanni Paolo II: costruito e finanziato da ambienti cattolici da sempre politicamente vicini al Partito Repubblicano, ovvero i Cavalieri di Colombo (il cui fondatore, Michael McGinvey, verrà proclamato beato da papa Francesco nei prossimi mesi).

La reazione sdegnata contro Trump della vescova episcopaliana di Washington, Mariann Budde, era prevedibile, visto l’orientamento politico della Chiesa che rappresenta. Meno prevedibile era il comunicato nettissimo dell’arcivescovo cattolico della Capitale, Wilton Gregory – uno dei pochi alti prelati cattolici di origine afroamericana negli Stati Uniti, nominato a Washington da papa Francesco nel 2019. Monsignor Gregory ha definito “sconcertante e riprovevole” l’uso del santuario di Giovanni Paolo II da parte di un presidente come Trump che non ha mostrato alcun ritegno nel disperdere con la forza manifestazioni pacifiche solo per poter posare a favore di telecamera, nel tentativo di costruire o recuperare una qualche credenziale presso l’elettorato religioso in vista delle elezioni di novembre.

L’intervento di Gregory era meno prevedibile perché non si ricorda una presa di posizione così forte dell’arcivescovo cattolico della Capitale contro un presidente in carica. Nella scelta dell’arcivescovo di Washington (e della Capitale di una nazione in generale) la Santa Sede e i nunzi tengono sempre conto della capacità del prelato di gestire in modo prudente il rapporto con il mondo istituzionale e politico che agisce e orbita attorno ai palazzi del potere. Nonostante questo sia un anno elettorale, con Trump queste considerazioni sono saltate, dato il precipitare della situazione generale. (Io e la mia famiglia viviamo vicino a Philadelphia, una città in cui è stato dichiarato il coprifuoco nelle ultime quattro notti).

Ma l’intervento di Gregory era meno prevedibile anche alla luce dei rapporti interni alla Chiesa cattolica, con anime diverse che hanno rapporti diversi con Trump e il Partito Repubblicano. Wilton Gregory non è certamente un attivista o un estremista, ma rappresenta l’ala della Chiesa cattolica negli Usa che ora si oppone (insieme al cardinale di Chicago, Blase Cupich, e al vescovo di San Diego, Robert McElroy) a quella parte di episcopato che negli ultimi mesi ha stretto – nonostante tutto – un’alleanza con Trump, ai fini della difesa degli interessi della Chiesa cattolica in America: libertà religiosa (nel senso non solo della riapertura delle chiese dopo i provvedimenti contro la pandemia, ma anche come esenzione delle chiese dalle leggi sul rispetto dei diritti dei gay sul posto di lavoro), finanziamenti alle scuole cattoliche, e infine l’aborto – che rimane la questione chiave per l’allineamento politico dei cattolici negli Usa. Il campione di questo atteggiamento accondiscendente è stato, nelle ultime settimane, il cardinale di New York, Timothy Dolan, che ora forse rimpiange di aver lodato solo qualche settimana fa, dal pulpito della cattedrale di St. Patrick, “la leadership” del presidente Trump.

È evidente una spaccatura interna al cattolicesimo americano: non solo tra gli elettori, ma anche – cosa essenziale per comprendere le dinamiche di questa Chiesa e dei suoi intrecci col mondo del grande business – tra alcuni vescovi come Gregory, Cupich e McElroy da una parte e le lobby cattoliche espressione di vasti interessi finanziari, politici e mediatici (nel caso specifico, i Cavalieri di Colombo) dall’altra. Ormai non si tratta soltanto di qualche intellettuale o rivista progressista alla rincorsa di un socialismo cristiano. Si trova davanti a un bivio lo stesso establishment cattolico, spaccato in due da Trump anche ai livelli più alti, che non ha bisogno di papa Francesco per inorridire di fronte all’uso cinico e crudele della religione da parte non solo del presidente, ma anche di membri cattolici della sua amministrazione (nella quale, per esempio, gioca un ruolo importante l’attorney general, William Barr, cattolico ultraconservatore e, benché non membro, vicino agli ambienti dell’Opus Dei).

Non è solo una questione cattolica. Anche all’interno del mondo protestante bianco Trump minaccia di trascinare con sé, tra le fiamme di una presidenza dedicata a un’agenda più razzista che nazionalista, più eversiva che conservatrice, anche quei settori del protestantesimo bianco evangelicale che nulla hanno in comune con il secolarismo del Partito Democratico, ma che temono di diventare dei paria – quasi come le Chiese protestanti del Sudafrica durante l’apartheid. Faceva specie vedere ieri, mescolato tra la folla dei manifestanti pacifici a Houston, Joel Osteen, il maggiore evangelista (bianco) del “vangelo della prosperità”.

Il presidente più amato dai neo-conservatori, George W. Bush, ieri ha diramato un messaggio che è una presa di distanza da Trump, ma anche una chiamata a raccolta per la sopravvivenza di una tradizione politica a rischio di implosione. Il Partito Repubblicano, da Nixon fino a Bush II, aveva certamente beneficiato ma allo stesso tempo anche tenuto sotto controllo i fluidi razzisti che sono parte integrante di un certo conservatorismo politico-religioso degli Stati Uniti. Trump ha aperto la sentina e ha innescato una crisi non solo politica e costituzionale, ma anche morale e religiosa che riporta il Paese ai tempi della guerra civile, quando tutte le Chiese negli Stati Uniti erano spaccate internamente e trasversalmente sulla questione della schiavitù. Oggi la questione è la supremazia bianca, intrecciata a una questione di giustizia sociale ed economica inseparabile dal declino geopolitico del progetto America.

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