Siamo proprio sicuri che ai brand faccia bene il royal effect?

di Giorgia Olivieri (vanityfair.it, 5 luglio 2023)

The Vampire’s Wife sull’orlo del fallimento è solo l’ultimo brand della lista. Non c’è royal effect che tenga quando ci si mette di mezzo il fisco. È notizia di qualche giorno fa: la griffe amatissima da reali come la principessa Kate del Galles, Beatrice di York, Mette Marit di Norvegia e Sofia di Svezia rischia la chiusura a causa dei debiti accumulati durante la pandemia, un periodo nero per il business della moda dal momento che, costretti in casa, nessuno si sognava di pensare agli abiti da sera.

Ph. Tim Graham / Getty Images

L’Hmrc (His Majesty’s Revenue and Customs), sarebbe a dire l’ufficio di riscossione delle tasse di sua maestà, ha inviato un avviso di liquidazione per insolvenza alla società fondata nel 2014 da Susie Cave, moglie del cantante Nick, che proprio dal titolo di un romanzo incompiuto dall’artista aveva preso ispirazione per la sua avventura nella moda. E dire che gli affari sembrano andare a gonfie vele. Non c’è evento, red carpet o appuntamento reale dove non spunti una creazione The Vampire’s Wife. Il Falconetti Dress (si occupa Nick Cave in persona del nome da dare ai modelli) è stato definito da Vogue l’abito del decennio.

Reso celebre da Kate Middleton, quel vestito in verde è stato addirittura cristallizzato nel primo ritratto congiunto degli allora duchi di Cambridge realizzato da Jamie Coreth per il decimo anniversario della coppia. Kate nella vita vera l’aveva sfoggiato nel tour in Irlanda nel marzo del 2020 con grande successo di critica e pubblico. A onor del vero, però, la prima della famiglia Windsor a scoprire la firma fu proprio Beatrice. In occasione del matrimonio di Ellie Goulding, il 31 agosto 2019, la principessa di York, agli albori della sua rinascita stilistica, portò alla ribalta il brand stupendo tutti con un abito verde smeraldo simile ma non identico a quello di Kate, chiamato infatti Veneration Dress.

Se The Vampire’s Wife è un punto fermo del guardaroba di Beatrice (l’ultimo avvistamento risale alla vigilia della pubblicazione in The Gazette dell’istanza), Kate ha scelto la firma solo in un’altra occasione, ma anche in questo caso memorabile. Riavvolgiamo il nastro e voliamo con la memoria in Belize, quando, durante la visita ai Caraibi per il Platinum Jubilee nel marzo del 2022, la reale lasciò tutti a bocca aperta con il cosiddetto abito lungo Light Spleeper, color rosa shocking, di lamé con le maniche svolazzanti. Una combo, quella tra la principessa del Galles e The Vampire’s Wife, riuscitissima, tanto che sono bastate poche volte ma buone per entrare nell’immaginario.

Parlando dei guai finanziari, tutto pare sia originato da un ritardo nel pagamento delle tasse all’inizio di quest’anno. Anche grazie al volano reale, la società nel 2022 ha fatturato oltre 5 milioni di sterline, con un aumento del 38% rispetto all’anno precedente e una previsione per il 2023 di 6,6 milioni. Numeri che sembrano riguardare un’azienda in salute, se non fosse per l’affanno di aggiustare i conti con il fisco per lasciarsi la pandemia alle spalle. Le dichiarazioni dell’integerrimo servizio di riscossione, che, ironia della sorte, fa riferimento proprio a sua maestà, sono perentorie. «Adottiamo un approccio collaborativo per trattare con le aziende che hanno debiti fiscali e presentiamo istanze di liquidazione solo dopo aver esaurito tutte le altre opzioni, al fine di proteggere i soldi dei contribuenti».

Tuttavia, non suona ancora il requiem per The Vampire’s Wife: il 12 luglio è prevista un’udienza in tribunale «per trovare una soluzione accettabile per tutte le parti», si legge in un comunicato, dal momento che, pare, le brutte notizie siano arrivate in casa Cave come un fulmine a ciel sereno, senza preavviso e senza la possibilità di rateizzare il dovuto. Insomma, pare intravedersi uno spiraglio di luce, vedremo presto chi avrà la meglio di fronte alla legge. Nel frattempo, potrebbe fare proprio comodo un look regale disegnato da Susie Cave. Sta girando in questi giorni la foto di Beatrice con una blusa rosa con un fiocco in vita mentre si reca in un club londinese con il marito Edoardo Mapelli Mozzi. Sembra un attestato di stima e fiducia per il brand ma non lo è, visto che lo scatto è stato catturato il giorno prima della diffusione della notizia. Un endorsement non endorsement. Di sicuro sarà gradito lo stesso in questi giorni difficili per The Vampire’s Wife.

In queste settimane c’è un altro simbolo della moda royal che non se la sta passando bene. Si tratta di Hunter, il brand famoso per i suoi stivali da pioggia diventati celebri grazie a una calzata di Kate Moss a Glastonbury nel 2005. Amati dalla regina Elisabetta, da Carlo, Camilla e persino Diana, Meghan, per non menzionare i fratelli William e Harry quando ancora bambini giravano con le galosce abbinate. Proprio pochi giorni prima del festival che ne ha consolidato la fama iniziasse, il marchio è entrato in amministrazione controllata. In parole povere, bancarotta. Una realtà storica fondata a Edimburgo nel 1856, detentrice di un Royal Warrant come azienda fornitrice della casa reale, fallita sotto il peso di 115 milioni di sterline di debiti. Di chi è la colpa? Stando a quanto dichiarato da Hunter, i fattori che hanno determinato la caduta di ciò che è stato per anni un compromesso tra praticità e glamour (uno stivale indossato dai contadini e da Sarah Jessica Parker, per dire) sarebbero la Brexit, l’inflazione, l’interruzione della catena di approvvigionamento a causa della pandemia e, last but not least, il global warming. Piove meno, quindi si comprano meno wellies (questo il nome del modello, diminutivo di Wellington Boots).

Quando, come commentano alcuni clienti sui siti d’informazione, si è visto che la plastica era di qualità più scadente, l’amore è finito e si è spostato su altre etichette “copiate” proprio da chi sta in campagna. Kate da anni, per esempio, quando capita usa Le Chameau, mentre Sophie di Edimburgo, per un impegno in una fattoria, ha infilato un paio di Ariat. Guardando il sito di Hunter si capisce che qualcosa sta cambiando. «Stiamo creando una nuova esperienza per voi» annuncia il nuovo compratore, che promette di rilanciare il marchio. Gli stivali così squisitamente british sono, infatti, diventati americani. Authentic Brands Group, già in possesso dei diritti di Brooks Brothers, Ted Baker, Reebok e Juicy Couture, ha acquisito la proprietà intellettuale di Hunter. Per saperne di più, o lasciamo il nostro indirizzo sul sito per essere informati delle novità o aspettiamo di vedere cosa metteranno ai piedi Carlo III e congiunti.

Le storie di The Vampire’s Wife e di Hunter non sono casi isolati di brand benedetti dalle royals caduti, in maniera diversa, in disgrazia. Diana ha fatto il bello e il cattivo tempo di diverse firme. Il caso più eclatante è quello di Elizabeth Emanuel. La stilista, insieme al marito David, ha creato uno degli abiti da sposa più famosi di tutti i tempi, quello con il quale una giovane Diana Spencer è convolata a nozze con l’erede al trono d’Inghilterra nel 1981. Gli Emanuel erano designer di grido negli anni Ottanta ma, quando la coppia è andata in crisi e la principessa ha cominciato ad affidarsi ad altre maison, la griffe non ha retto l’urto di tanti cambiamenti, complice il fatto che la creatività spesso non va di pari passo con le competenze manageriali e finanziarie.

Un altro con un destino simile è stato Bruce Oldfield. Dopo averla resa una vera e propria celebrità da red carpet consolidando la fase Dinasty Di, lo stilista è stato “abbandonato” da Diana negli anni della separazione da Carlo. Dopo una serie di ridimensionamenti e compromessi (avviare una collaborazione con una catena di abbigliamento), Bruce Oldfield nel 2020 ha liquidato la società: anche la pandemia non la poteva affrontare. Tuttavia, archiviata l’emergenza sanitaria, chi l’ha salvato è stata l’arcinemica di Diana: la regina Camilla, oltre a commissionargli outfit adatti al suo status e alla sua età, gli ha chiesto di creare l’abito per l’incoronazione. Il resto, come si dice, è storia.

Nella lista va inclusa anche Amanda Wakeley. Una carriera ruggente per la designer che è riuscita a vestire sia Diana sia Meghan e Kate, interrotta anche in questo caso dal Covid-19. Per imprese di questa misura che vivono grazie a eventi come il Royal Ascot, le cerimonie e i matrimoni, due anni di lockdown sono stati fatali. Nel maggio del 2021 è stato tentato un salvataggio ma si è saputo che le trattative per trovare nuova linfa per l’attività, cioè capitale, non sono andate in porto.

Chi invece ha chiuso i battenti un attimo prima che scoppiasse la pandemia è stato Peter Pilotto. Il duo che aveva fondato il brand, lanciatissimo negli anni Dieci, Peter Pilotto e Christopher De Vos, alla fine di febbraio del 2020 ha annunciato che si sarebbe preso una pausa. Una pausa che si è rivelata uno stop, visto che i due sono scomparsi dai radar. E dire che il futuro per loro sembrava radioso: Eugenie di York li aveva scelti per il suo matrimonio reale, il 12 ottobre 2018. Una scelta che significava che le foto della loro creazione abbinata a una tiara, come si usa tra principesse, avrebbero fatto il giro del mondo, dando al nome un prestigio particolare: il brand sarebbe stato per sempre legato a un comunicato stampa emesso da Buckingham Palace. E invece no. La responsabilità però, in questo caso, va data a un’altra sventura britannica molto sentita dalle imprese: la Brexit.

E poi c’è il caso di Issa London. Quando è stato annunciato il fidanzamento di Kate e William non si è parlato d’altro che di quel vestito blu come uno zaffiro caratterizzato dalla scollatura incrociata e la lunghezza midi. Un brand di nicchia, a sua insaputa, aveva sperimentato per primo il “Kate effect”: una scelta che si è rivelata successivamente esplosiva, in ogni senso. Gli ordini sono impazziti, arrivavano richieste da ogni dove, ma la struttura di Issa London, piccola casa di moda fondata da Daniella Helayel, non era preparata a un tale successo. Prima mancavano i soldi per crescere; poi, quando sono arrivati una socia (Camilla Al-Fayed, sorella di Dodi e figlia di Mohamed) e un nuovo amministratore delegato, la creatura che aveva fatto nascere non la rispecchiava più. Quando a Daniella i capelli sono diventati bianchi per lo stress ha mollato la direzione creativa, nel 2013. Il brand Issa London, invece, è sopravvissuto solo per due anni. Daniella Helayel, dopo sessioni intense di yoga, numerosi viaggi in Asia, un soggiorno a Los Angeles e un ritorno a casa in Brasile, ha ricominciato a disegnare. Nel 2016 ha lanciato una nuova etichetta, Dhela, archiviata dopo soli tre anni.

Non tutti i brand sono in grado di assorbire il colpo di tanta popolarità, a volte improvvisa, a tratti, come abbiamo visto, altalenante. La solidità di un’azienda non deve reggersi sui gusti di una principessa. A volte, forse, è meglio stare alla larga dal royal effect che tanto dà ma tanto potrebbe anche togliere. Icone di stile come Diana Spencer o più recentemente Kate Middleton possono decidere, anche inconsapevolmente, le sorti di un brand. Hanno un potere enorme e, come tale, occorre maneggiarlo con cura.

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