Non puoi sempre avere quello che vuoi, o delle dispute politiche sulle canzonette

di Maurizio Stefanini (linkiesta.it, 30 giugno 2020)

I Rolling Stones contro Donald Trump, e non solo. A Tulsa, nel comizio di apertura della sua campagna elettorale, il presidente ha fatto suonare You can’t always get what you want: una canzone che ha compiuto 52 anni, dal momento che fu registrata il 16 e 17 novembre 1968, per essere inclusa nell’album del 1969 Let it bleed.WoodyGuthrie_This_machine_kills_fascistsInserita dalla rivista Rolling Stone al 100esimo posto nella sua lista delle 500 migliori canzoni di tutti i tempi – che poi va evidentemente intesa nel senso di «500 canzoni più belle che può aver sentito un anglosassone medio di oggi» –, secondo una leggenda metropolitana fu ispirata a Mick Jagger e Keith Richards dal barista di un pub a cui avevano chiesto una cherry soda. Il ragazzo, che era poi uno studente di quella Ball State University di Muncle (Indiana) in cui i Rolling Stones dovevano dare un concerto, disse che purtroppo non avevano ciliegie. «Come è possibile?», fu più o meno la risposta di Jagger. Al che lo studente-barista, il cui nome era John Birkemeier, spiegò: «Non puoi avere sempre quello che vuoi». Un «You can’t always get what you want» da cui il leader dei Rolling Stones sarebbe rimasto folgorato, ispirando appunto la canzone. E a imperitura riconoscenza, ogni volta che i Rolling Stones tornano a suonare da quelle parti, l’ormai attempato Birkeimer riceverebbe ancora non solo un biglietto gratuito per il concerto, ma addirittura un passaggio in limousine per andare e tornare.

Malgrado la ricchezza dei dettagli, non si sa se la storia sia vera. Comunque il titolo potrebbe essere anche simbolico, a indicare il tipo di reazione che i Rolling Stones hanno avuto con Trump: «Non puoi avere sempre quello che vuoi!». Oltretutto Donald è recidivo, visto che aveva già usato il brano per la campagna del 2016. Allora la band si era limitata a twittare: «I Rolling Stones non sostengono Trump». Adesso hanno mandato i loro avvocati dalla Bmi, l’agenzia che si occupa dei diritti musicali. E l’ordine imperativo è di smetterla, dopo che le precedenti «richieste sono state ignorate».

I media che si stanno occupando della cosa ricordano che anche I won’t back down di Tom Petty è stata suonata a Tulsa. Uscita nel 1989 con un chiaro messaggio di sfida contro forze negative ancorché non nominate, la canzone acquisì negli Stati Uniti un forte significato simbolico dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, quando le radio la mandarono a ripetizione. Petty diede il suo imprimatur a questa interpretazione, eseguendo la canzone in un telethon successivo agli eventi. Attenzione però che nel 2000 anche George W. Bush aveva provato a usarla: non solo Petty gli impose di smetterla, ma andò poi a suonarla a casa di Al Gore. Morto nel 2017 a 66 anni, adesso Tom Petty non può ovviamente obiettare. Ma ci si sono messi i suoi parenti, con un tweet irato: «Non avrebbe mai voluto che una sua canzone fosse usata per una campagna d’odio». Anche loro intimano, dunque, al presidente di smetterla.

Il precedente di George W. Bush, comunque, chiarisce che non è un problema solo di Trump. Qua va ricordato come addirittura dai tempi di George Washington i candidati alla presidenza degli Stati Uniti accompagnassero le loro campagne elettorali con canzoni ad hoc. Ne dà testimonianza Presidential Campaign Songs: 1789-1996, un album del folk-singer Oscar Brand che uscì nel 1999, e che YouTube ci permette oggi di ascoltare dall’inizio alla fine. Si tratta in effetti di una antologia ristretta, perché si limita a una sola canzone per ogni presidente entrato in carica: senza menzione né per i temi dei candidati trombati, né per le diverse campagne di coloro che – al contrario – furono rieletti più di una volta.

Una lista più completa la riporta Wikipedia. Ma si tratta comunque di ben 43 pezzi. Da Follow Washington: «Il giorno è arrivato / i miei versi corrono / e segui, segui Washington / Lui guiderà il cammino, ragazzi / dove comanda, obbediremo / attraverso la pioggia e la neve, di notte e di giorno / retti dalla Libertà, ragazzi / retti dalla Libertà». A Don’t stop thinking about tomorrow dei Fleetwood Mac, che Bill Clinton convinse a rimettersi assieme dopo il loro scioglimento apposta per accompagnarlo nella sua prima campagna elettorale: «Non smettere di pensare al domani / non smettere, presto sarà qui / sarà meglio di prima / il passato è andato, il passato è andato» – che però in realtà non era in origine un testo rivolto alla politica, bensì lo sfogo di una donna dopo essere stata piantata dal suo compagno; insomma, un pezzo riciclato.

Proprio l’album di Oscar Brand ci rivela, però, che la lista delle canzoni scritte su commissione per un candidato si arresta a Buckle down with Nixon: «Ha amici dappertutto / di qua, di là / Che cosa questo presidente non farà per te e per me? / Mettiti sotto con Nixon, mettiti sotto». Dopodiché, i candidati hanno cominciato a servirsi di canzoni già esistenti. Ed è iniziato, appunto, il problema di autori a cui l’utilizzo non piaceva. La cosa è successa soprattutto con canzoni dal testo genericamente “patriottico”, che, in quanto tali, piacevano “a Destra” ma erano di autori “di Sinistra”. Mutatis mutandis, come quando da noi Francesco De Gregori chiese all’allora Msi di non usare più il suo Viva l’Italia: «La mia Italia è diversa dalla loro», disse a brutto muso.

John McCain, ad esempio, la campagna elettorale del 2008 l’aveva iniziata con Our Country di John Mellencamp. Ma l’interprete non gradì e gli intimò di smetterla, permettendo così di far usare il tema a John Edwards. Che però, dopo essere stato candidato alla vicepresidenza nel 2004, in quell’anno si trovò presto staccato da Obama e Hillary Clinton, e fu costretto al ritiro già il 30 dicembre. McCain arrivò, invece, a giocarsi la partita finale con Obama usando Take a chance on me degli Abba. Il suo complesso preferito; e comunque svedese, quindi con qualche probabilità in più di non piantare storie. Tra gli outsiders repubblicani da lui superati c’era Mike Huckabee, pastore battista e allora governatore uscente dell’Arkansas. Anche lui aveva provato a utilizzare More than a feeling dei Boston. E anche lui ne era stato bloccato.

L’infortunio capitò perfino al grande Ronald Reagan, che nel 1984 aveva provato a usare Born in the U.S.A. Bruce Springsteen disse di no, per offrire in compenso, nel 2004, la sua No surrender alla campagna di John Kerry. Brand dunque per Reagan ricorda l’inno della campagna del 1980: California, here I come, canzone tratta da un musical del 1921 spesso considerata una sorta di inno non ufficiale dello Stato di cui l’ex attore fu governatore. In compenso nel 1988 George H.W. Bush, il padre, riuscì addirittura a essere eletto sulle note di This land is my land di Woody Guthrie, grande folk-singer notoriamente filocomunista, che, sulla sua chitarra, aveva scritto: «Questa macchina ammazza i fascisti». Ma, essendo morto 21 anni prima, non era più in condizione di protestare.

Per i vari casi di candidati politici censurati da autori di canzoni, c’è solo esempio del contrario: un musicista che ha scritto una canzone per sostenere un candidato che gli ha proibito di utilizzarla. È avvenuto con il rapper Ludacris, che scrisse per la prima campagna di Barack Obama Politics as usual. Ma era talmente zeppa di insulti a Hillary Clinton, George W. Bush e John McCain che Obama ebbe paura di un effetto boomerang e gli impose di smetterla.