Perché sarebbe impossibile girare “House of Cards” al Cremlino

di Riccardo Chiaberge (linkiesta.it, 17 marzo 2022)

«Voi dov’eravate?» è il tormentone dei militonti rossobruni che scorrazzano sui social e in tivù, in questi giorni di guerra. «Dov’eravate quando l’Occidente bombardava Belgrado?». «E quando la Siria veniva rasa al suolo?». «Dov’era Ursula von der Leyen mentre la Nato faceva colossali esercitazioni al confine polacco?». «E voi, dov’eravate quando i bambini dello Yemen venivano uccisi dai missili sauditi?». «E allora l’Iraq? E allora l’Afghanistan?». Sembra di essere tornati ai tempi del «Parlateci di Bibbiano». Il metodo Bibbiano applicato alla geopolitica. E invece la domanda giusta dovrebbe essere: «Dov’eravamo, noi tutti? Dove avevamo la testa, negli ultimi venti anni?».

Showtime

Da che parte guardavamo, mentre Vladimir Putin costruiva pezzo per pezzo il suo delirante disegno espansionistico, e montava le impalcature del più feroce regime totalitario che l’Europa abbia mai conosciuto dai tempi di Stalin e Hitler? Non parlo di quelli che con Putin erano diventati ciccia e pappa, che si strafogavano di caviale e champagne nella sua dacia e facevano le notti brave nel famoso lettone a Palazzo Grazioli, quelli che lo esaltavano come un grande liberale o che sfoggiavano la t-shirt col suo ceffo. E non parlo nemmeno dei tanti che intrecciavano affari con gli oligarchi, comprandogli il petrolio e vendendo yacht e ville in Versilia. Parlo di noi gente normale, persone per bene, italiani dell’Isee, senza yacht né caviale.

Ce ne siamo mai accorti, tra un centro commerciale, uno spritz e una vacanza in Sardegna, abbiamo fatto lo sforzo di informarci su cosa succedeva in Cecenia o in Georgia, in Crimea o in Donbass? Quanti di noi hanno letto gli articoli di Anna Zafesova o di Jacopo Iacoboni che da anni mettevano in guardia contro le mire egemoniche del nuovo zar? I più alzavano le spalle, e il nostro svogliato impegno civile era riservato alla demolizione della Casta e dei suoi odiosi “privilegi medievali”, al taglio dei parlamentari e alla vittoriosa lotta contro la deriva autoritaria di Matteo Renzi. Perché era qui, non a Mosca, che allignavano mafia e corruzione, era qui che le libertà correvano i rischi più gravi e impellenti. Ed è qui che per anni abbiamo sentito gracchiare in coro che i giornaloni mentono o “non ce lo dicono”, i giornalisti sono tutti lecchini e i media asserviti al “regime”. Chiedetelo a Marina Ovsyannikova cos’è un giornalismo asservito, e come si fa un tg con le veline del Cremlino.

La democrazia liberale, nella mente di molti, troppi di noi, è il mondo di House of Cards, un sistema di potere marcio e irriformabile, dove i politici hanno il canino acuminato e le mani sporche di sangue. E dove per scalare la Casa Bianca il sulfureo Frank Underwood non esita a uccidere un deputato rivale coi gas di scarico e a sedurre una bella e cinica giornalista, salvo poi, quando diventa troppo ingombrante, buttarla sotto un treno della metropolitana. Democratici e Repubblicani, cronisti e magistrati, sono tutti invischiati, tutti complici. Non si salva nessuno. Washington (o Roma) come Gomorra. Con questa narrazione replicata per decenni in un’infinità di film, il cinema di Hollywood, roccaforte della sinistra liberal americana, ha spianato la strada alla destra populista. Se le elezioni sono una truffa e votare non serve a niente, se la classe politica è una fogna come in Absolute Power o nel Rapporto Pelican, tanto vale affidarsi a un tycoon megalomane pronto ad assaltare il Campidoglio per disinfestarlo dai parassiti e rendere l’America great again.

Nessun regista, per contro, si è finora cimentato con la Russia di Putin, che pure si presterebbe a una succulenta sceneggiatura di crimini e misfatti. Non che manchino serie tv di ambientazione russa, e anche di produzione russa, ma per lo più riguardano personaggi o storie del passato: Trotsky, Tolstoj, Il maestro e Margherita, Guerra e pace, Caterina la Grande (con una strepitosa Helen Mirren). Per non parlare di Chernobyl, la miniserie angloamericana che racconta il disastro senza reticenze, mettendo a nudo le nefandezze del sistema sovietico, le menzogne di Stato, lo scaricabarile tra burocrati, l’ottusa ubbidienza alle gerarchie che prevale sul senso di responsabilità e sul rispetto della vita umana. Ma quella è l’Urss di Gorbaciov, non la Federazione russa di oggi.

A dire il vero, un grande nome di Hollywood a Mosca c’è stato e ha girato, ed è nientemeno che Oliver Stone, celebre per i suoi film di denuncia, spesso di ispirazione complottistica: chi non ricorda Jfk – Un caso ancora aperto (sull’assassinio di Kennedy), Platoon, Gli intrighi del potere (su Richard Nixon) o il contestatissimo W (sulla presidenza di George W. Bush). Un regista d’assalto, che non si piega e non fa sconti a nessuno. Ma quando è arrivato con la troupe al cospetto dello Zar Vladimir, nel 2017, probabilmente si era scordato di portare con sé il suo arsenale antiautoritario. Ne sono uscite quattro puntate di una intervista prolissa e inginocchiata, con domande che trasudano, più che ammirazione, un rapimento quasi erotico. Del resto il grintoso Oliver ha sempre subito la fascinazione degli uomini forti, da Fidel Castro (ci ha fatto due documentari) a Hugo Chávez. L’essenziale è che siano nemici dell’America imperialista. Come lo è Putin, anche se non appartiene alla famiglia della sinistra radicale e rivoluzionaria ma a quella del Kgb.

Questa è la cultura che ha colonizzato il nostro immaginario, anche in Italia, e che alimenta una pregiudiziale ostilità verso gli Stati Uniti, una radicata sfiducia verso le istituzioni parlamentari e il disprezzo delle “élite” che governano l’Unione Europea. Prevengo le raffiche dei cecchini da tastiera: non sto invocando la censura per gli Oliver Stone o le House of Cards. Ci mancherebbe. Sono fiero e felice di vivere in una società aperta dove chiunque può denigrare i potenti senza finire in galera, e anzi fare della denigrazione una professione ben retribuita. Una civiltà libera di criticare le proprie magagne e perfino i propri successi. Ma l’autocritica non può neanche diventare un’ossessiva autoflagellazione che rende ciechi di fronte alle magagne altrui, anche quando sono immensamente più atroci, o come l’ideologia woke o la cancel culture che criminalizza l’intera storia dell’Occidente.

Non possiamo segare il ramo su cui siamo seduti. E neppure mettere sullo stesso piano un premier “non eletto dal popolo” con un despota sanguinario, o strillare alla “dittatura” per il green pass obbligatorio, quando dittatura vera è quella che sta schiacciando gli ucraini (e, in modo diverso, gli stessi russi) sotto il suo tallone di ferro. È su questo equivoco, su questa sfiducia in noi stessi, su questo autolesionismo della civiltà liberale che ha scommesso Putin sferrando il suo attacco criminale all’Europa. Sta a noi dimostrare che ha fatto male i suoi calcoli.

Spread the love