Lo stile parasociale

Ph. Toby Zerna / Newspix – Rex

di Guia Soncini (linkiesta.it, 29 aprile 2025)

Meghan Markle – Pourquoi tant de haine” titolava in copertina un numero di Paris Match a marzo, e io ancora non potevo immaginare c’entrasse quella mia compagna di classe che, alle elementari, passava molto tempo con la nonna paterna. Quella che solo al liceo avrebbe scoperto che quell’odore dal parrucchiere era ossigeno.

Paris Match titolava “Perché tanto odio” e non “Perché tanto amore” a causa di uno dei più gravi limiti culturali di questo secolo. Un secolo che ha inventato la parola “hater” per illudersi che il tizio che passa il suo tempo on line a dire a gente che non conosce che spera muoia presto ha dei problemi, mentre il tizio che passa il suo tempo on line a dire a gente che altrettanto non conosce che la ama e la venera, quello invece sta benissimo. Un secolo in cui chi dovrebbe capire il mondo soffre dello stesso bisogno di dopamina dell’hater e del fan, e quindi non vuole ammettere che il problema sono le relazioni parasociali, il problema è «la presa che l’immaginario esercita su di noi per mezzo della nostra iperidentificazione con esso» (scusate se cito Žižek, adesso mi passa e torno subito a citare Venditti).

Il “Perché tanto odio” di Paris Match prelude a uno degli automatismi più scontati nella pubblicistica: l’interpretazione in chiave misogina di fenomeni che hanno pochissimo a che vedere con l’essere l’oggetto delle attenzioni una donna. Nelle stesse settimane il New York si chiedeva “Perché Meghan Markle e Blake Lively sono così odiate”, e ormai il meccanismo è smaccato: facciamo un bel titolo che ci permetta di dire che è patriarcato, vedrete quanti cuoricini.

Questo però non è un articolo sulle relazioni parasociali (sì che lo è), e neanche un articolo sulla pigrizia delle analisi che si accomodano nell’idea del patriarcato (sì che lo è): questo è un articolo sulle ipotesi di complotto. Ipotesi di complotto è il film fondativo del secolo in cui viviamo. Uscì nel 1997, Julia Roberts era un’investigatrice e Mel Gibson un picchiatello di quelli che vedi sui social, quelli che sono hater d’una parte e lover d’un’altra, ma comunque picchiatelli sono: comunque consumati da modalità ossessive.

Oggi il picchiatello social può sostenere, a seconda delle sue incarnazioni: che Michelle Obama sia un uomo (hanno pure un nomignolo per lei: Big Mike; è il picchiatellismo di destra, per cui praticamente il mondo è governato da busoni non dichiarati: è un uomo Brigitte Macron, era un uomo la moglie di Kissinger); che Melania Trump sia una o più sosia di Melania Trump, la quale non vuole accompagnare quell’orrendo marito in giro e infatti guardala questa che scende dall’aereo con lui, ha la fronte diversa, non è mica davvero lei, l’hanno noleggiata. Che Blake Lively sia una criminale o una santa. È esattamente uguale, proprio come per hater e fan: stiamo comunque parlando di ossessionati che si leggono tonnellate di carte processuali per sostenere che abbia ragione lei o che abbia ragione Justin Baldoni, non conoscendo nessuno dei due.

Quelli che meno capiscono il mondo sono quelli che vedono questi fenomeni e concludono che i commentatori social siano retribuiti da una delle parti in causa, si tratti di Baldoni contro Lively o Israele contro Hamas o Putin contro Ucraina o Renzi contro Conte: ma come vi viene in mente che ci sia bisogno di pagarla, l’umanità ha gli elettrodomestici e un fracco di tempo libero, si ossessiona gratis. E può sostenere tutto ma proprio tutto su Meghan Markle, forse il personaggio meno interessante mai apparso nella storia delle famiglie reali e proprio per questo perfetto per questo tempo in cui il pubblico cerca medietà in cui specchiarsi. In cui specchiarsi e per cui scaldarsi.

Domenica la signora Markle (o come si chiama ora) ha instagrammato delle foto dei bambini nel roseto. Bambini presi di nuca, come gli eredi Ferragni dopo la separazione. Ieri mattina io avevo Twitter (o come si chiama ora) monopolizzato dal delirio di sconosciuti a proposito delle nuche di bambini a loro sconosciuti figli di una tizia altrettanto sconosciuta ai commentatori.

Elenco non esaustivo di fantasie sulle nuche che mi sono apparse sul telefono senza fare mezza ricerca sul tema, solo così, donate dall’algoritmo. I capelli di Harry non sono mai stati così rossi, twitta qualcuno che si è preso il disturbo di cercare le foto di Harry da piccolo per postarle affiancate. Il gene Spencer, si sdilinquisce qualche fan di Diana che si è procurato le foto di tutti, la nonna, il fratello della nonna, la bisnonna, per dimostrare che i piccini sono rossi come lei. E aspettate che ci facciano vedere gli occhi blu come quelli della nonna, fantastica qualcuno che non s’accontenta della nuca. (Se state pensando “questa gente mi fa una paura”, congratulazioni: siete normali, benvenuti, è un club minuscolo e che quindi non può tecnicamente più dirsi normale).

Poi c’è la mozione surrogata. Perché una delle ossessioni che calamita la Markle è la convinzione che i figli non li abbia fatti davvero lei. Ci sono persino foto con studio di angolazione della pancia, è un delirio che va avanti da anni. Certo, diranno i cinefili: anche quello di Mel Gibson sembrava delirio, e poi aveva ragione su tutto e c’erano davvero i servizi segreti deviati o cosa diavolo erano. Fatto sta che questa corrente picchiatellista non sa bene come funzioni la surrogata, e quindi pensa che i capelli rossi della bambina dimostrino che non ha il Dna della madre: «Ho fatto delle ricerche» scrive una la cui biografia social dice “Famiglia, cani, e pace”, «ed è virtualmente impossibile avere una bambina coi capelli lisci e rossi, per una madre di razza mista che aveva i capelli afro». Grande scandalo alla corte di Londra, i picchiatelli conoscono la verità, e alla fine trionferanno come Mel Gibson.

Ma la mia preferita è quella che non ha mai visto una bambina di tre anni con così tante doppie punte (sarà hair shaming?), e quindi le è evidente che la madre la decolora e la tinge. Per fingere sia rossa e quindi figlia del marito? Per fingere sia rossa e alimentare picchiatellismo? Chissà. Quando eravamo alle elementari, una delle mie compagne era tinta a sua insaputa. La nonna voleva una nipote bionda, quindi la portava dal parrucchiere e la faceva tingere. Che ne sai, a otto anni, di che odore ha la tinta, di cosa è normale e cosa no ti metta in testa il parrucchiere. Ho ancora una foto di lei biondissima, e ricordo che era un biondo che pareva sospetto a tutti – a noi che pure avevamo otto o nove anni, di sicuro alle nostre madri – ma nessuno diceva niente. Fu lei, quando – ormai castana scurissima – lo venne a sapere, eravamo già al liceo, a dircelo: ma non sapete, quella pazza di mia nonna, mi faceva fare i colpi di sole.

Ci avevamo pensato per dodici secondi osservando quello strano biondo alle elementari, ci pensammo per altri dodici secondi al liceo, quando ci disse la verità. Non ci saremmo mai messe a fare i confronti fotografici, non ci era mai sembrato importante. Certo, avevamo il cinema e la letteratura, non i cellulari con le vite di un po’ tutti dentro: ci interessavano meno i retroscena delle vite di chi faceva parte della nostra vita quarant’anni fa, di quanto smaniamo per sapere la verità sugli sconosciuti ora. Di ora che nessun giornale titola “Perché tanto tempo libero?”.

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