Trump Tower, Trump Power

Ph. Bassam Masoud / Reuters

di Carlo Renda (huffingtonpost.it, 2 maggio 2025)

La Trump Organization sta espandendo a dismisura i propri affari nella regione del Golfo Persico. Eric Trump, il figlio al quale è affidata la holding, è ormai un habitué in questi Paesi, fa la spola fra Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, discute accordi, firma intese, investe montagne di dollari.

Da poco la Trump Organization, insieme a realtà industriali saudite e qatarine affiliate ai rispettivi fondi sovrani, ha inaugurato il Trump International Hotel and Tower, di ottanta piani, a Dubai, dal valore stimato di un miliardo di dollari, dove un attico si può acquistare con un assegno da venti milioni; sta nascendo anche un Trump Golf Club da diciotto buche e residenze di lusso a Nord di Doha, in Qatar, per un investimento complessivo di due miliardi di dollari. E poi un altro Trump Golf Club ed edifici residenziali in Oman, e una Trump Tower a Jeddah, la seconda città saudita.

C’è anche di più. Zach Witkoff, fondatore dell’azienda di criptovalute della famiglia Trump, World Liberty Financial, ha rivelato che il fondo emiratino Mgx ha concluso un accordo commerciale da due miliardi di dollari con Binance – piattaforma di scambio particolarmente controversa dopo aver ammesso, nel 2023, la violazione delle leggi antiriciclaggio statunitensi – utilizzando la stablecoin trumpiana USD1.

Ed è «solo l’inizio» ha commentato il figlio del super-negoziatore di Trump, Steve Witkoff, durante un’importante conferenza sulle criptovalute negli Emirati Arabi Uniti. Un esempio lampante, commenta il Nyt, dei conflitti d’interesse e dei conflitti etici che gravitano attorno alla presidenza e al business del presidente nelle criptovalute. Un giorno, ha continuato Witkoff Jr., i visitatori degli Emirati potrebbero addirittura usare USD1 per pagare al Four Seasons di Abu Dhabi. Eric Trump è intervenuto per una rettifica: «Non entrerai al Four Seasons con un dollaro, entrerai al Trump International Hotel and Tower».

Anche per questo Donald Trump ha cerchiato di rosso sul calendario la sua missione del Golfo di metà maggio: dal 13 al 16 maggio andrà in Arabia Saudita – e il potentissimo principe ereditario Mohammed bin Salman ha avuto il privilegio di essere il primo leader internazionale che Trump ha scelto di chiamare subito dopo il suo insediamento alla Casa Bianca –, poi in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti. Il presidente aveva già scelto l’Arabia Saudita come prima tappa del suo primo mandato nel 2017, e ora torna nella regione con relazioni consolidate e un’agenda economica intrecciata a interessi privati.

I fondi sovrani di questi Paesi si sono impegnati a investire miliardi negli Usa – l’Arabia Saudita ha quantificato in 600 miliardi di dollari in quattro anni, gli Emirati addirittura 1.400 miliardi di dollari nel prossimo decennio – e, nel corso delle visite, il presidente americano metterà la sua firma su moltissimi accordi bilaterali e investimenti a nove zeri. Tra le indiscrezioni, Reuters cita sei diverse fonti sull’intenzione di Washington di offrire all’Arabia Saudita un pacchetto di armi del valore di ben oltre 100 miliardi di dollari.

Questa regione è diventata nelle ultime settimane anche la principale agorà diplomatica del mondo. In Qatar (oltre che in Egitto) si discute il futuro di Gaza. In Oman (oltre che in Italia) si affronta il nodo del nucleare iraniano. In Arabia Saudita si svolge la delicatissima partita della tregua in Ucraina. L’esercito statunitense ha basi militari ovunque, i Paesi del Golfo sono tra i maggiori acquirenti di armi americane. Donald Trump non ha nascosto la sua ambizione di portare l’Arabia Saudita a siglare gli Accordi di Abramo, e quindi un patto di normalizzazione dei rapporti con Israele, l’architettura trumpiana del Medio Oriente di domani.

Uno dei sogni di casa Trump è il piano di evacuazione forzata dei palestinesi e la trasformazione di Gaza, con uno sviluppo immobiliare di lusso, nella «Riviera del Medio Oriente»: quella che sembrava solo una provocazione quando un anno fa il genero di Trump, Jared Kushner, ex consigliere della Casa Bianca per il Medio Oriente, parlava della «proprietà costiera» di Gaza come di una zona molto preziosa, oggi è una costante nelle dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, anche se non per questo il progetto appare più realizzabile. I Paesi arabi hanno reagito al piano di Trump per Gaza con una controproposta che ha spostato il focus, rimettendo nei binari il negoziato diplomatico.

Questo fa capire anche quanto siano maturati i Paesi del Golfo rispetto al primo mandato di Trump. Non ci saranno problemi finché si parlerà di far girare soldi, e l’accoglienza per il presidente americano sarà in pompa magna. La regione, però, ha anche posizioni forti da mettere sul tavolo: sono storicamente ostili a Israele e avversari dell’Iran, ma non vogliono che la guerra mediorientale si prolunghi ancora, soprattutto per i danni che continua a procurare sulla rotta del Mar Rosso. C’è poi chi a Riad ha preso posizioni sullo Stato palestinese: forse i leader non si farebbero scrupoli di tornare indietro, ma dovrebbero fare i conti con il legame di sangue che le popolazioni regionali, specie quella saudita, sentono con quella palestinese.

Il disordine sui mercati e le speculazioni su un’imminente recessione globale, causata dalle guerre prima e dai dazi poi, sono quanto più può spaventare le monarchie mediorientali. In particolare per gli effetti sul petrolio: l’Arabia Saudita l’avrebbe detto chiaro e tondo ai partner dell’Opec che non è disposta a sostenere il mercato del petrolio con ulteriori tagli all’offerta e può gestire un periodo prolungato di prezzi bassi. Se così fosse, sarebbe un mutamento della strategia saudita, con un aumento della produzione e un’espansione della propria quota di mercato, con effetti di sbilanciamento sul mercato e di avvio di una vera e propria guerra dei prezzi.

Una cosa è certa: le petromonarchie hanno bisogno di prezzi del greggio più alti per sostenere i colossali progetti di spesa dei governi. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, che ha tagliato le prospettive di crescita di Riad, l’Arabia Saudita avrebbe bisogno di prezzi del petrolio superiori a 90 dollari per pareggiare il bilancio entrate-uscite. Secondo gli analisti, i sauditi potrebbero dover ritardare o tagliare alcuni progetti a causa del calo dei prezzi e hanno già cominciato a rivedere al ribasso le ambizioni di Neom, la città del futuro del loro programma Vision 2030. Un altro aspetto molto connesso al petrolio, che sarà discusso con Trump, è il legame con la Cina. Rompere non è un’ipotesi credibile, Pechino è il principale acquirente del petrolio del Golfo e il primo partner economico, è too big to leave.

Si discuterà ovviamente di dazi: nonostante i surplus commerciali statunitensi e gli investimenti dell’America e della famiglia Trump, la Casa Bianca ha imposto un dazio del 10%. I fondi sovrani del Golfo investono massicciamente in azioni e titoli del Tesoro Usa, convinti dalla stabilità e dalla prevedibilità del sistema statunitense. Oggi il disordine richiede di misurare diversamente la loro esposizione verso gli Stati Uniti, tanto più che il dollaro indebolito pesa sulle valute e sulle economie del Golfo, ancorate alla valuta americana, con effetti inflazionistici. Insomma, il tappeto sarà steso per Trump, ma non saranno solo resort, dollari e rose.

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