L’Eurovision tra musica, soft power e giochi diplomatici

di Giacomo Natali (internazionale.it, 11 maggio 2022)

Laura Pausini, Alessandro Cattelan e Mika, i tre conduttori che saliranno sul palco dell’Eurovision Song Contest di Torino dal 10 al 14 maggio, saranno accompagnati dallo spettro di un evento che pochi in Italia ricorderanno: la disastrosa ultima edizione che si tenne nel nostro Paese nel maggio del 1991. L’Italia aveva vinto l’anno prima con Insieme: 1992, un inno europeista di Toto Cutugno. E proprio a lui viene affidata la conduzione, in coppia con l’allora unica altra vincitrice italiana, Gigliola Cinquetti. L’organizzazione incontra complicazioni logistiche dovute alle tensioni internazionali in Iraq e in Jugoslavia, ma l’improvvisazione segnerà l’intera edizione, ancora oggi ricordata unanimemente come la peggiore di tutti i tempi. Disastrosa anche la conduzione interamente in Italiano, anche se questo andava contro regole e consuetudini del festival, dove a dominare sono Inglese e Francese, insieme a una visione della musica pop assai più cosmopolita.

Invece di coronare il trionfo dell’anno precedente, l’Italia finisce per dimostrare di non aver mai capito cosa fosse l’Eurovision. Poco dopo, infatti, se ne ritirerà. Salvo un’effimera parentesi nel 1997, con i Jalisse e la loro Fiumi di parole, l’Italia tornerà all’Eurovision solo vent’anni dopo. Una lunga interruzione che contribuisce alla difficoltà per il pubblico italiano di capire il peso simbolico che la manifestazione ha nel resto d’Europa. Proprio durante quell’intermezzo, infatti, avviene una mutazione radicale del concorso, sia per il meccanismo di voto, che si apre al televoto del pubblico, sia per l’aumento dei Paesi partecipanti dopo la fine della Guerra Fredda. L’Eurovision si trasforma in un gigante pop e mediatico capace di attrarre ogni anno oltre duecento milioni di spettatori. Si fa sempre più largo anche la politica, in ogni suo aspetto: relazioni internazionali, alleanze e conflitti geopolitici, così come identità nazionale, sociale e personale.

L’Italia era stata tra i fondatori dell’Eurovision, nel 1956, insieme agli altri componenti della Comunità Europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) e alla Svizzera. Come la Ceca, anche l’Eurovision nasce nel contesto della ricostruzione del secondo dopoguerra, con l’obiettivo di alimentare lo spirito europeista: da qui la regola che impone di votare per un Paese diverso dal proprio. Nei primi decenni l’Italia porta al festival interpreti popolari e talvolta sorprendenti, da Domenico Modugno a Gianni Morandi, fino ad Alice e Franco Battiato. Ma a fronte di uno scarso interesse del pubblico nazionale, e a un’insufficiente valorizzazione del programma da parte della Rai, perfino le uniche due vittorie (Cinquetti e Cutugno) sono state celebrate in sordina.

A differenza della Germania, l’Italia non sente l’esigenza di riscattarsi con canzoni pacifiste. Né nutre le ambizioni egemoniche della Francia o di chi, come il Regno Unito, sta compensando la perdita dell’Impero con la promozione della propria cultura pop nel mondo. Già inserita negli organismi politici ed economici europei, l’Italia non ha particolari ragioni per bussare alla porta d’Europa attraverso l’Eurovision, come invece cerca di fare la Spagna ancora franchista. Molti altri Paesi, invece, comprendono come l’Eurovision possa rappresentare un palcoscenico ideale per far pesare il proprio soft power. Col graduale allargamento dell’Eurovision, che spesso anticipa quello delle altre istituzioni europee, sempre più Paesi periferici sono interessati a un riposizionamento nel salotto buono d’Europa. Lo fanno per primi la Svezia e gli altri Paesi scandinavi, poi quelli balcanici, soprattutto dopo la dissoluzione jugoslava. E infine lo fa l’universo post-sovietico. Attorno a quest’espansione si formano anche blocchi di voto reciproco capaci, secondo i critici, di decidere il risultato finale: nasce così una nuova disciplina accademica, l’Eurovisiopsephology, che studia proprio i flussi di voto tra i Paesi in gara.

Nel 2011 il ritorno in gara dell’Italia avviene al termine di un decennio talmente dominato dall’Europa dell’Est che la Norvegia, per vincere nel 2009, aveva dovuto farsi rappresentare da un cantante bielorusso, Alexander Rybak. L’accoglienza è comunque trionfale. Madness of love, il brano di Raphael Gualazzi, assai sofisticato rispetto agli standard dell’Eurovision, arriva a sfiorare la vittoria. Nelle dieci edizioni successive, gli artisti italiani arrivano sesti, quinti, terzi, due volte secondi e infine conquistano la vittoria con i Måneskin. Risultati tra i migliori in assoluto, soprattutto se paragonati a quelli degli altri grandi Paesi dell’Europa occidentale, da tempo surclassati dalle nuove superpotenze dell’Eurovision: Svezia e Ucraina. Si comincia anche a delineare chi assegna più frequentemente punti all’Italia: Albania, Malta, San Marino e Grecia. Questa tendenza, considerando anche i punti provenienti dalla Croazia sempre in crescita, suggerisce una penetrazione geopolitica a forbice verso i Balcani. Con l’aggiunta di Portogallo e Spagna, comunque fedeli alle radici latine e mediterranee nelle proprie votazioni, si va così a definire una sorta di spazio geografico e culturale italofilo. È presto per definirlo un vero “blocco di voto”, e possiamo escludere che sia all’opera una lungimirante e strategica visione italiana di diplomazia culturale, analoga a quelle che hanno guidato gli investimenti economici e diplomatici, per esempio, di Paesi come la Russia e l’Azerbaigian.

Più probabilmente, il caso italiano potrebbe essere la prova che i blocchi di voto non sarebbero tanto legati a scelte politicamente consapevoli, quanto ai lasciti di imperi passati, federazioni o altre forme di vicinanza geografica e culturale, di matrice storica o contemporanea (come nel caso dei flussi migratori), che hanno formato un panorama culturale affine. Un fenomeno che spiegherebbe anche il paradosso dei voti nell’ex Jugoslavia, con Stati che, condividendo generi musicali, estetiche e lingue reciprocamente comprensibili, hanno continuato a votarsi tra loro anche in momenti di grande tensione. Oltre che di questo “voto di vicinato”, l’Italia sembra avere beneficiato anche del ruolo temporaneo di outsider, dell’assenza di “nemici giurati” e del tradizionale appeal del suo marchio, in particolare tra i Paesi dell’Europa dell’Est. Quest’anno però l’Italia dovrà fare a meno di uno dei suoi alleati storici: la Russia.

In quel Paese, infatti, è radicatissimo il ricordo degli anni in cui i programmi italiani rappresentavano una delle rare finestre verso Occidente per il pubblico. In questo senso sono indicative Ciao 2020 e Ciao 2021, le trasmissioni messe in onda durante i Capodanni del 2021 e 2022 dalla televisione russa, interamente in lingua italiana. Erano parodia e omaggio allo stesso tempo, nonché traino per i dodici punti assegnati da Mosca ai Måneskin nel 2021. Ma, a conferma del ruolo politico dell’Eurovision, nel pieno della prima fase dell’invasione russa dell’Ucraina, quest’anno il governo di Kiev ha considerato strategico ottenere l’esclusione della Russia dal concorso. D’altra parte, anche il comico russo Ivan Urgant, che con lo pseudonimo di Giovanni Urganti era l’autore di quelle fortunate trasmissioni di Capodanno (e che nel 2009 aveva condotto l’edizione russa dell’Eurovision), è stato costretto a scappare all’estero, dopo aver dichiarato la propria opposizione alla guerra.

Senza che ci sia una vera regia dietro, l’Italia all’Eurovision si dimostra comunque trasversale e sempre ben riconoscibile, nonostante presenti artisti spesso molto differenti tra loro. Gioca un ruolo centrale il fatto che sia tra le pochissime nazioni a esibirsi quasi esclusivamente nella propria lingua. Dal 1999 è consentito cantare in qualunque lingua e questo ha portato a un generale appiattimento verso l’Inglese, di cui anche quest’anno faranno uso almeno tre canzoni su quattro. Proprio l’Italiano sarà però l’unica altra lingua utilizzata da più di un artista, grazie alla presenza di Achille Lauro in rappresentanza di San Marino. E non sarà la prima volta che succede, anche se in passato l’uso dell’Italiano da parte di altri Paesi è stato in genere associato a brani dal retrogusto operistico, come Questa notte dei lettoni Bonaparti.lv nel 2007, oppure La forza dell’estone Elina Nechayeva nel 2018 e My friend il brano del serbo Željko “Jacques” Houdek, che nel 2017 ha conquistato anche sei punti dal televoto del nostro Paese.

Quest’anno l’Italia dovrà più che mai domandarsi quale delle sue tante identità dovrà proiettare all’Eurovision. L’Italia è pizza, mandolino, mamma, oppure Samantha Cristoforetti sulla Stazione Spaziale Internazionale? La risposta è ovviamente entrambe le cose, insieme a tutto quello che ci può stare in mezzo. Ma nel presentarsi all’Eurovision vanno fatte delle scelte. E ancora di più quando si tratta di ospitarlo. Come si presenterà dunque l’Italia a Torino? Il brano di Mahmood e Blanco è, dal punto di vista musicale, tradizionalmente italiano. Armonicamente e melodicamente, al di là di certe invenzioni ritmiche di Mahmood, Brividi potrebbe quasi essere un pezzo di Aleandro Baldi di trent’anni fa. Per il resto, l’esibizione al Festival di Sanremo aveva sottolineato alcuni riferimenti lgbt+, tema molto caro al pubblico dell’Eurovision e sul quale si potrebbe dunque puntare anche a Torino.

Sono previsti poi, nel programma, momenti ancora più tradizionalmente italiani, come la partecipazione in veste di ospiti dei tre giovani tenori de Il Volo, che nel 2015 arrivarono terzi all’Eurovision, proprio grazie alla loro bella Italia da cartolina. Per il resto sono ancora molte le incognite, a partire dal fatto se sarà affrontato o no il tema della guerra. Si dà inoltre per scontato che l’Eurovision sarà presentato prevalentemente in Inglese, ma ciò non esclude che non possa essere comunque segnato da scelte autarchiche. Per la prima volta da molti anni, per esempio, il design del palco e il suo funzionamento non sono stati progettati dalle maestranze tedesche di fiducia dell’Eurovision, ma sono stati affidati a uno studio romano. Fattore che potrebbe distinguere ancora di più l’evento, in caso di successo. Ma c’è anche chi teme che dietro a questa scelta si nasconda il pericolo di aver frainteso ancora una volta l’Eurovision e che la Rai intenda presentare una sorta di Sanremo sotto steroidi.

Nel giudicare l’organizzazione sarà inevitabile il confronto con la Svezia, che è l’assoluta regina dell’Eurovision e l’unica ad averlo ospitato in ogni decennio da cinquant’anni a questa parte. La Svezia è anche un punto di riferimento di stile televisivo, con la sua capacità di rivolgersi a un pubblico paneuropeo con una certa autoironia. Il Paese scandinavo si è anche dimostrato capace di conquistare un gradimento trasversale di chi gli riconosce valori progressisti, inclusivi e multiculturali. La presenza di Mahmood per l’Italia, da quest’ultimo punto di vista, aveva rappresentato un salto in avanti già alla sua prima partecipazione, nel 2019. Così come l’anno precedente era toccato all’italiano Ermal Meta, nato in Albania. Le comunità immigrate giocano, peraltro, un ruolo fondamentale nel determinare i voti assegnati dall’Italia, che per la maggior parte si dirigono verso le nazioni dalle quali queste provengono. A partire proprio dall’Albania, ma anche Moldavia, Polonia e Ucraina. Ipotizzando che a votare per gli artisti di questi Paesi siano gli stessi loro concittadini residenti in Italia, il loro impatto percentuale potrebbe essere reso più significativo dalla scarsa partecipazione al voto del resto della popolazione italiana, che non sembra ancora essersi appassionata alla competizione. La vittoria dei Måneskin, infatti, ha convinto il mercato discografico italiano dell’utilità di ben figurare all’Eurovision, tanto da spingere molti artisti italiani a candidarsi per altri Paesi. Ma il nostro pubblico televisivo non sembra ancora del tutto coinvolto.

Considerato che i bookmaker indicano Mahmood e Blanco tra i favoriti alla vittoria, potrebbe un secondo successo consecutivo cambiare ulteriormente la percezione dell’Eurovision in Italia? Alle loro spalle è data Cornelia Jakobs, con l’ennesimo competente brano pop sfornato dalla Svezia. Ma anche il britannico Sam Ryder, forte dei più di cento milioni di like su TikTok, fa sperare al Regno Unito di far dimenticare la sequenza di ultimi posti coincisi con la Brexit. Davanti a tutti si prevede però che arrivi l’Ucraina, forte sia del favore di pubblico e giurie per via dell’attuale invasione sia della ridefinizione della sua immagine e del suo ruolo in Europa, alla quale ha consacrato la propria partecipazione negli ultimi venti anni. Al di là dei risultati finali, per l’Italia la vera sfida potrebbe però essere proprio l’organizzazione dell’evento. Un altro fiasco come quello del 1991 farebbe venire meno la reputazione guadagnata a partire dal ritorno in gara, certificandone l’incapacità di guardare al di là del proprio naso. Un’organizzazione competente, ma senza carattere, pur senza fare danni, rischierebbe di confinare l’Italia tra altre realtà medie e gregarie. Un grande successo, non solo organizzativo, ma anche dal punto di vista dei valori rappresentati e della consapevolezza del ruolo dell’Eurovision, potrebbe trasformare l’immagine dell’Italia davanti a più di duecento milioni di europei appassionati. E aggiungere a questi altre decine di milioni di italiani.