I grembiuli di Miuccia Prada

di Mila Spicola (huffingtonpost.it, 11 ottobre 2025)

I grembiuli di Miuccia Prada, visti nella sfilata dell’ultima collezione [primavera-estate 2026, At Work N.d.C.], sono diventati virali. Sui social si alternano ironia e nostalgia, battute sul focolare e le punturine al cuore di ricordi lontani, nel vedere quei grembiuli dalle fantasie familiari stampate negli occhi e nella memoria.

Non sapevo che mia nonna avesse capi di lusso tra i cassetti!”. Ma la collezione di Miuccia Prada intenzionalmente e consapevolmente sta raccontando qualcosa di più profondo: i grembiuli di Prada sono bombe a mano sul senso comune e sul patriarcato introiettato. Sono bombe a mano veicolate col simbolo visibile di uno sfruttamento accettato, lanciate contro il lavoro delle donne, sfruttato, non tutelato, non pagato, dato per scontato, che regge il sistema produttivo capitalista del mondo e che viene mascherato da “amore naturale”: il lavoro di cura. Il lavoro domestico.

Sono il segno dell’identità sociale e pubblica negata alle attività di cura domestiche svolte essenzialmente dalle donne. La discriminazione profonda subìta, e che subiamo ancora, e lo sfruttamento. Discriminazione perché caricato tutto sulle spalle delle donne, dandolo per scontato. Sfruttamento perché totalmente non retribuito e non tutelato. Questo lavoro non pagato, non tutelato e non riconosciuto regge il sistema produttivo e riproduttivo mondiale. Ovvero il capitalismo, basato su squilibri economici che si fondano su squilibri di potere e di diritti. Questo è.

Il grembiule, oggetto umile e quotidiano, diventa per Prada accessorio da passerella e sfila con esso l’immagine del lavoro invisibile che da secoli grava sulle spalle delle donne. È un gesto concettuale che, volente o nolente, fa esplodere un significato politico. Prada non lo reinventa, non lo ridisegna, lo porta tale e quale: lo ripropone, nelle linee, nei colori, nella postura. E in quella riproposizione affiora tutta l’ambiguità di un sistema che continua a trarre valore da ciò che resta non pagato.

C’è una vasta letteratura scientifica economista sul lavoro di cura, il lavoro invisibile delle donne, equivocato come predisposizione naturale. Dietro l’ironia apparente che sorvola le bacheche di tante e tanti si nasconde, infatti, la struttura stessa del capitalismo indagata dalle riflessioni dagli studi delle economiste femministe: un’economia che poggia su un lavoro necessario, gratuito, naturalizzato, e perciò invisibile. È il lavoro domestico, affettivo, relazionale, che sostiene la vita sociale e la produttività del mondo, dicono le economiste. E dobbiamo renderci conto che hanno ragione.

Citiamone qualcuna. Da Nancy Folbre, che in The Invisible Heart ci dice come il mercato ignori il valore economico delle attività di cura e costruisce la propria efficienza sulla loro gratuità, a Marilyn Waring, che, già nel 1988, in If Women Counted, denunciava l’esclusione del lavoro domestico dai conti nazionali, mostrando come il Pil cancelli sistematicamente il contributo femminile alla ricchezza collettiva. Da Arlie Hochschild, che già con The Second Shift (1989) rivelava il paradosso della parità apparente – le donne lavorano fuori casa, ma sostengono ancora una “seconda giornata” di lavoro domestico che nessuno retribuisce – a Nancy Fraser, che in Fortunes of Feminism (2013) va oltre e mostra come il neoliberismo abbia cooptato le istanze di libertà femminile trasformandole in nuovi dispositivi di auto-sfruttamento, mentre lo Stato sociale arretra e la cura torna sulle spalle delle donne. Cosa vi ricorda?

Nel panorama italiano, Marcella Corsi, nel volume collettivo Economia femminista. Proposte, pratiche e sfide (2025), che consiglio fortemente di leggere, ripropone le analisi di Cristina Carrasco Bengoa e Carmen Díaz Corral sul lavoro di cura come infrastruttura sociale essenziale: un pilastro dell’economia pubblica, non un residuo del privato. È questa la prospettiva da cui osservare il grembiule di Prada, che diventa più di un accessorio: è il simbolo della contraddizione fra visibilità estetica e invisibilità economica. Rende lussuoso ciò che nella realtà resta svalorizzato.

È la rappresentazione di un paradosso collettivo: quello di un sistema che esibisce la cura ma non la riconosce, che celebra la maternità ma la isola, che parla di conciliazione ma scarica tutto sulle spalle femminili. E il tema non è solo il lavoro, è l’identità, è la rappresentazione e la sostanza della condizione femminile. Non parliamo del passato, e nemmeno delle nostre nonne, non è la cornice di C’è ancora domani di Paola Cortellesi. È l’adesso.

In Italia, ma soprattutto nel Mezzogiorno, e in Sicilia in particolare, è la realtà dove il paradosso assume tratti drammatici. La Regione registra il più basso tasso di occupazione femminile in Europa e una delle più alte quote di lavoro informale, di lavoro domestico, di “amore materno” cui sacrificare tutto, identità, ruolo, riconoscimento, anche inconsapevolmente. Luoghi in cui le donne, spesso fuori dal mercato, suppliscono con il proprio tempo all’assenza di servizi educativi e di welfare.

Beh, possiamo iniziare a dirlo che questo non è amore: è lavoro gratuito? Anche a costo di beccarci le critiche e lo scherno che da più parti arriva quando lo si dice a voce alta? È una forma di disuguaglianza strutturale che si perpetua sotto l’etichetta della dedizione, ma che pesa su tutta l’economia nazionale: i numeri sul lavoro femminile al Sud trascinano verso il basso i numeri nazionali, e con essi i numeri complessivi sul lavoro in Italia rispetto all’Europa. Dunque, tanta, tanta roba, come direbbe qualcuno. Quel grembiule dai colori brillanti, quindi, non è un oggetto neutro o ironico. È il riflesso di un’economia che vive del lavoro invisibile delle donne e di una cultura che lo giustifica come “naturale”.

Per questo, ringrazio Miuccia Prada. Sorridiamo pure, ma pensiamoci. Dietro quel tessuto c’è la storia del mondo, e di tutte le donne che lo hanno tenuto in piedi senza che nessuno lo riconoscesse. A che servono le femministe? A questo: a restituire misura e dignità a ciò che per troppo tempo è stato chiamato amore. Per carità, lo è pure. Ma se non ha scelta, se non è condiviso, riconosciuto, supportato, se è subìto, se è scontato, ha altri nomi, e uno è gabbia.

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