Rino Gaetano, l’anarchico che usò le canzonette per fare la rivoluzione

Ph. Angelo Deligio / Mondadori via Getty Images

di Andrea Silenzi (repubblica.it, 29 ottobre 2025)

«A te che odi i politici imbrillantinati / che minimizzano i loro reati / disposti a mandare tutto a puttana / per salvarsi la dignità mondana / a te che non ami i servi di partito / che ti chiedono il voto, un voto pulito / partono tutti incendiari e fieri / ma quando arrivano sono tutti pompieri / a te che ascolti forse il mio disco sorridendo / giuro che la stessa rabbia sto vivendo / stiamo sulla stessa barca io e te».

Questa canzone di Rino Gaetano si intitola Ti ti ti ti. Fu pubblicata nel 1980, all’interno dell’album E io ci sto, il sesto nella carriera del cantautore, che verrà ripubblicato il 21 novembre a 45 anni dalla sua morte. Fu il suo ultimo disco. È fin troppo facile dire che quella canzone sembra scritta oggi. Rino Gaetano era nato il 29 ottobre del 1950: avrebbe compiuto 75 anni. Coetaneo di Venditti, De Gregori e di tutta quella schiera di cantautori che hanno segnato gli anni Settanta e oltre. Ma anche il più irregolare, il più irrequieto, il più sarcastico. Diverso da tutto e da tutti.

Rivendicava la libertà di essere ironico fino al paradosso mentre in tanti cantavano la vita in modo pesante e serioso («Non è facile dire qualcosa in tre minuti proprio perché si dispone di uno strumento fragile come la canzonetta. Se pensi che la gente ti ascolta mentre mangia, o per radio mentre cucina, mentre balla, è distratta per chissà che motivo. In fondo io mi considero solo uno che si guarda e commenta, tutto qui»), ma spiegava che Mio fratello è figlio unico, uno dei suoi brani rimasti impressi nella memoria collettiva, era la canzone «degli emarginati, ma non tanto di quelli tradizionalmente riconosciuti, come i sottoproletari, gli alcolisti, i drogati, quanto noi stessi. Pochi si occupano delle cosiddette persone normali. Mi piace esasperare le cose, amo i paradossi. In fondo Ionesco, uno degli autori teatrali che preferisco, è tutto un paradosso. Dire che mio fratello è figlio unico perché è convinto che esistono ancora gli sfruttati, i malpagati e i frustrati non è demagogia».

Nessun disimpegno, nessuna concessione. Rino osservava e colpiva: la sua arte non era ideologica, ma nemmeno neutra. Così come Enzo Jannacci, uno dei suoi modelli, Gaetano vive ancora al di sopra del tempo: è stato uno dei primi artisti post-ideologici, suggeriva sberleffi al potere col sorriso beffardo di chi crede solo a quello che vede. Come Jannacci, cantava la vita di quelli seduti in fondo al tram, o meglio all’autobus 62, lui che era stato adottato da Roma e che viveva sulla Nomentana.

Nel documentario Rino Gaetano. Sempre più blu, presentato alla Festa del Cinema di Roma e nelle sale il 24, 25 e 26 novembre, esce fuori tutto lo spirito anarchico e ribelle di un artista libero, capace di presentarsi a Sanremo col cilindro in testa, il frac sopra una magliettina a righe bianche e rosse e la chitarrina tra le mani per cantare Gianna, un’allegria pop che nascondeva, come sempre, un significato ben più profondo, un ritratto dello smarrimento di un’epoca a cavallo tra utopia e ritorno alla realtà. Tutti gli intervistati nel doc (che contiene anche un brano inedito, Un film a colori – Jet set, una versione della già edita Jet set con un testo completamente differente), da Lucio Dalla al discografico Stefano Micocci, da Ernesto Bassignano a Carlo Massarini, concordano su un unico giudizio: Rino era differente da tutti.

I ragazzi di oggi lo amano perché somigliava a loro: nessuna certezza, molta rabbia e un disprezzo profondo per il potere. Come in Nuntereggaepiù, dove l’elenco di quelli diventati insopportabili somiglia terribilmente a un Tg qualsiasi. In quel brano cantava: «Lotteria a trecento milioni / Mentre il popolo si gratta / A dama c’è chi fa la patta/ A settemezzo c’ho la matta/ Mentre vedo tanta gente / Che non c’ha l’acqua corrente / E non c’ha niente / Ma chi me sente / Ma chi me sente». Era ieri, ma è come oggi.

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