Santi, suore e commissari: i cliché narrativi delle fiction Rai

Pepito Produzioni – Rai Fiction

di Alessio Di Nizio (wired.it, 3 giugno 2025)

Le fiction Rai, ovvero: immaginate un mondo dove gli omicidi si risolvono con una bicicletta e un sorriso, dove ogni tramonto è carico di significato morale, e dove anche il falegname del borgo ha un passato oscuro da agente segreto. Questo mondo non è un esperimento sociale distopico, ma semplicemente il palinsesto fiction della Rai, un universo parallelo in cui i volti sono sempre gli stessi, i drammi sono sempre altissimi e la fotografia è sempre dorata, come una pubblicità di panettoni a Ferragosto.

Iniziamo da due pilastri su cui si regge l’intero sistema narrativo Rai. Prendiamo Don Matteo. Sì, proprio lui. È la pietra angolare della mitologia Rai, il Batman del bene comune, ma in tonaca e con il sellino. Ha visto cambiare carabinieri, sindaci, comprimari e pure il Papa, ma lui è sempre lì, idealmente, in sella alla sua bicicletta morale, pronto a trovare l’assassino con un’alzata di sopracciglio e una metafora biblica. Quando Terence Hill ha passato il testimone a Raoul Bova, nessuno ha realmente capito se fosse un recast, una reincarnazione, o semplicemente un aggiornamento firmware del prete investigatore. Però Bova (aka Don Massimo) ha i pettorali, e quindi va tutto bene.

Poi c’è Montalbano, l’unico commissario al mondo capace di risolvere un triplice omicidio mentre mangia un piatto di triglie alla livornese e contemporaneamente fa il bagno nudo in una caletta siciliana. Ogni episodio è una sinfonia mediterranea di delitti, scarpette di pane e frasi in dialetto che nessun milanese ha mai capito, ma che tutti fingono di cogliere. Luca Zingaretti ha creato un personaggio che, per quanto pragmatico, è diventato il simbolo della giustizia poetica.

È il commissario che tutti vorremmo, purché non ci tocchi cucinargli. E quando pensavamo che non ci fosse più nulla da dire, ecco Il giovane Montalbano: un prequel in cui Michele Riondino – con l’aria da cantautore che ha letto troppo Pavese – interpreta l’eroica giovinezza del commissario, tra primi amori, primi casi, e prime pastasciutte. Una serie che ci ha insegnato che anche Montalbano, prima di diventare scorbutico e geniale, è stato giovane, sensibile, e con una chioma vaporosa che oggi definiremmo “riluttante al gel”.

Il punto è che, qualunque sia la fiction Rai in onda, gli attori sono sempre gli stessi. È come se ci fosse un gruppo WhatsApp chiamato “Cast Rai 2020-2030” dove ci si passa i ruoli a rotazione. Vanessa Incontrada interpreta la donna forte con ferite interiori in circa sette produzioni diverse: cambia solo la lunghezza dei capelli e la posizione geografica della casa vista lago. Alessandro Gassmann è sempre un uomo tormentato, ma elegante. A volte è un professore, altre un ispettore, altre ancora un padre alle prese con adolescenti problematici, ma il tono di voce resta costantemente basso, sofferente, vagamente filosofico.

Giuseppe Zeno, invece, è la new entry definitiva nel catalogo degli uomini Rai, nell’era post Beppe Fiorello: sguardo intenso, camminata lenta, vocale grave. Lo trovi in ogni fiction dove serve un uomo irrisolto con giacca grigia e passato misterioso. È una presenza rassicurante, anche se nessuno sa mai bene che lavoro faccia. Sembra sempre a metà tra commercialista ed ex galeotto pentito. Poi ci sono quelli che ormai hanno il ruolo fisso nel grande teatro della narrazione nazionale, come Alessio Boni e Fabrizio Gifuni, che mica possono vivere solo di teatro. Gifuni, per esempio, è l’attore che viene chiamato ogni volta che bisogna incarnare una figura tragica, istituzionale, sofferta: Aldo Moro, un padre morente, un intellettuale tormentato. Lo metti in un corridoio buio con una camicia bianca sudata e sai già che stai per assistere a una crisi esistenziale in tre atti.

Neri Marcorè, invece, è la coscienza civile del piccolo schermo: dolce, riflessivo, colto, spesso incastrato in fiction dove deve sistemare i guai morali di chi gli ruota intorno, con quella voce da insegnante di Lettere che ti fa subito sentire in colpa anche se non hai fatto nulla. Ma soprattutto c’è lui: Paolo Pierobon, l’uomo che interpreta il 98% dei cattivi del Nord. Ha quella faccia che, messa in controluce e con sottofondo di violoncello cupo, grida subito “conflitto d’interessi”, “corruzione sistemica” o “Dux mea lux”. Quando appare in scena, sai già che farà qualcosa di orrendo entro la fine dell’episodio — ma sempre con grande profondità interpretativa e cappotti ben tagliati. Un giorno, forse, Andrea Pennacchi prenderà il suo posto, ma è troppo presto per dirlo.

E che dire di Vanessa Scalera? Ecco, lei è la nuova promessa del “dramma psicologico” Rai, soprattutto grazie al suo ruolo di protagonista nella serie Imma Tataranni – Sostituto Procuratore. La sua Imma è una specie di detective sempre affannata: mangia e beva senza sosta, corre dietro ai crimini come se fosse in ritardo per una cena con amici, e quando risolve un caso sembra quasi che lo faccia per sbaglio. Il suo personaggio sembra scritto più per caso che per talento, un po’ come se avessero chiesto a una segretaria di recitare il ruolo del procuratore capo dopo una lunga giornata di lavoro. Ma alla fine, alla Rai, l’importante è far credere che qualcuno stia facendo davvero qualcosa di serio. E, in fondo, Vanessa ci riesce: le sue espressioni confuse ma determinanti ci fanno credere che, nel suo mondo, la giustizia si faccia tra un biscotto e un caffè.

Ma neanche i medical drama scherzano. Il nostro E.R. tutto tricolore è Doc – Nelle tue mani, con Luca Argentero in camice bianco, sguardo pensieroso e barba regolata come se avesse uno stylist dietro la porta del pronto soccorso. Argentero recita come se ogni battito cardiaco fosse un colpo di scena e, per carità, gliene va dato atto: finalmente un dottore televisivo che ti curerebbe anche con lo sguardo.

Potevamo, forse, dimenticare Un passo dal cielo? La serie ambientata in un paesaggio alpino che ti fa venire voglia di prendere il primo treno per le Dolomiti. Sì, solo ed esclusivamente per menare Gianmarco Pozzoli, che, con un’improbabile tinta alla Paolo Limiti, interpreta Huber. I protagonisti sono, come sempre, più belli dei paesaggi stessi, e lo sguardo tormentato di Marco Rossetti (sempre bellissimo e inesorabilmente serio) è la vera forza della serie.

Che Dio ci aiuti, invece, è un caposaldo del piccolo schermo che ha mostrato a tutti come trasformare una trama religiosa in un mix di dramma e commedia. Al di là della santità, i veri protagonisti sono i momenti in cui Elena Sofia Ricci (ormai special guest star dell’ottava stagione) si siede a riflettere, in atteggiamento serio, magari con una tazza di tè in mano, mentre tutti gli altri si scontrano con i loro problemi esistenziali. Più che una fiction, sembra un manuale su come essere buoni e felici prima dei titoli di coda. E se un caso è troppo complicato, basta far apparire una nuova suora e il problema è già risolto.

Nel grande trittico delle fiction che sembrano non finire mai, c’è Mina Settembre: la psicologa napoletana interpretata da Serena Rossi, sempre in corsa tra un consultorio e un dilemma sentimentale. Il suo personaggio è un concentrato di altruismo compulsivo, e sembra passare le giornate a risolvere i problemi altrui mentre i suoi restano lì, parcheggiati come la Panda del vicino. La Napoli di Mina è bellissima, solare, ma anche popolata da una quantità imbarazzante di uomini attraenti e moralmente discutibili che, puntualmente, s’innamorano di lei entro l’episodio 2.

Le sceneggiature delle produzioni Rai seguono una logica tutta loro. Il mistero, anche quando c’è, è secondario rispetto ai dialoghi sul senso della vita. I personaggi non parlano, declamano. Non litigano, affrontano “snodi esistenziali”. Le frasi sono costruite per essere sottolineate su un’agenda Moleskine: “Non si può perdonare ciò che non si conosce”, oppure “Forse non era amore, ma solo paura di restare soli”. In ogni episodio, una di queste viene detta guardando l’orizzonte.

E se per caso stavi seguendo il filo logico del racconto, ci penserà la musica a portarti via in un’altra dimensione. Ogni scena, anche la più banale, ha una colonna sonora epica, drammatica, struggente. Due persone che si salutano per andare al supermercato vengono accompagnate da un crescendo d’archi che manco Hans Zimmer al funerale di Mufasa. Una semplice discussione familiare è sottolineata da un pianoforte malinconico in minore, come se ogni cena fosse l’ultima cena di Cristo, ma in provincia.

E che dire delle ambientazioni? Un tripudio di cartoline in movimento. Tutto è splendente. La Toscana, l’Umbria, la Sicilia: la Rai non gira mai a gennaio in una periferia industriale. C’è sempre il Sole, il tramonto dura tipo 50 minuti, e la casa più povera ha comunque un portico con glicine e un tavolo apparecchiato con piatti in ceramica decorata. Anche quando c’è un delitto, non si vede una goccia di sangue: si muore con discrezione, vicino a un casale ristrutturato, tra due piante di lavanda.

Un caso completamente anomalo è Mare fuori, la serie che ha spaccato ogni schema e ogni TikTok diventando un fenomeno pop intergenerazionale. Alla sua quinta stagione, è ormai più di una fiction: è una religione con fan club, teoria del complotto e merchandise. Mare fuori ha fatto qualcosa di apparentemente impossibile: rendere poetico e romantico il disagio giovanile, con un cast di ragazzi affascinanti, tormentati, tatuati, e spesso spettinati in modo impeccabile. La trama è un mix esplosivo di Shakespeare, Gomorra, Beautiful e manuali di Sociologia: amori impossibili, tradimenti, frasi urlate in dialetto con sottofondo di violini elettronici, risse coreografate come balletti di contemporaneo e un sistema penitenziario che sembra più Hogwarts che Poggioreale.

Mare Fuori è riuscita a fare quello che nessun’altra fiction Rai ha mai fatto: diventare un fenomeno che conquista i giovani ma anche gli adulti, con il pubblico che si divide tra chi si emoziona davvero e chi lo guarda solo per poter dire “ma dai, non è realistico”. La recitazione a volte è sopra le righe? Sì. Le storie sono spesso implausibili? Certo. Ma anche questo è Rai, baby: emozione pura, senza freni, con una spolverata di mascara e un accento napoletano che ormai anche gli attori veneti stanno cercando di imitare.

Ultimamente, però, la Rai ha deciso di puntare in alto anche con le fiction storiche. Si prende la Storia vera, la si filtra con una lente emotiva molto drammatica e la si trasforma in una narrazione solenne dove nessuno sorride mai. Mameli è l’esempio perfetto: il povero Goffredo diventa una specie di Harry Styles risorgimentale, bello, intenso, patriottico, con un’aria sofferente costante e un’illuminazione teatrale anche quando sta bevendo un bicchiere d’acqua. Idem per Champagne, la serie su Peppino di Capri diretta da Cinzia TH Torrini, con il protagonista che sembra uscito dai Jonas Brothers.

Così come Belcanto, una serie assurda, che ha come presupposto un sequestro di persona che si trasforma in un esercizio d’introspezione musicale. Poi c’è La lunga notte – La caduta del Duce, dove Mussolini è trattato come un personaggio di House of Cards, con scene in penombra e musiche da thriller psicologico. La Storia, che ci propone la guerra vista con gli occhi di una donna qualunque (ma con lo sguardo da attrice candidata ai David). I leoni di Sicilia, invece, è un tentativo nobile di trasformare i Florio nei nuovi Medici, ma con più zibibbo e meno Savonarola.

E infine ecco Miss Fallaci, la fiction evento di quest’anno, dove Miriam Leone indossa i tailleur come se fossero armature, fuma con il pathos di una statua greca e lancia frasi granitiche al vento, in interni illuminati come se fossero sempre le 5 del pomeriggio. Oriana è la giornalista, la donna libera, l’icona, ma anche – nella rilettura Rai – una sorta di paladina neo-rinascimentale che lotta contro il maschilismo con lo sguardo tagliente e la voce ferma. Mancava solo che interrogasse Nixon sul valore dell’amore per completare il quadretto.

Eppure, le serie della Rai hanno un fascino irresistibile. Valerio Lundini lo aveva già capito, anni fa, quando regalò al mondo la meravigliosa parodia delle fiction Rai con Simonetta, la truccatrice della Magnani. Una serie di trailer immaginari, protagonista Emanuela Fanelli, talmente simili a quelli veri da risultare indistinguibili: attori in controluce, primi piani eterni, dialoghi che sembrano scritti da un algoritmo sentimentale e musica epica anche quando si accende una lampada. Un capolavoro di satira, ma anche, diciamolo, un sincero omaggio all’assurdità del nostro modo “troppo italiano” – come direbbe Stanis La Rochelle, in Boris – di raccontare storie.

Comunque, nonostante tutto, le guardiamo. Tutte. Perché? Perché ci fanno sentire a casa. Perché sono rassicuranti, pur nei drammi. Perché sappiamo che, anche se cambia la trama, anche se i personaggi muoiono, anche se arriva un nuovo attore a fare il commissario, alla fine ci sarà sempre un casale nella campagna italiana, una madre che capisce tutto con uno sguardo, e una frase sussurrata prima dei titoli di coda che ci fa pensare: “La vita è proprio una fiction”. E poi, diciamolo, vuoi mettere la soddisfazione d’indovinare già dal primo minuto chi è l’assassino, solo perché ha un volto nuovo e non è mai apparso in Don Matteo?

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