Che succederà a Hollywood dopo le elezioni?

di Giovanni Pedde (huffingtonpost.it, 21 ottobre 2020)

A pochi giorni dalle elezioni americane, vari analisti politici, ma soprattutto finanziari, s’interrogano su cosa potrebbe accadere a Hollywood all’indomani del voto. Quella dell’entertainment e dei media è un’industria di enorme rilevanza per l’economia degli Stati Uniti e che non si ferma certo al ristretto circuito degli Studios – Disney, Warner, Universal, Mgm e Paramount – e dei network televisivi. Si tratta di un ambito economico che abbraccia anche e soprattutto quelli che, in quanto destinatari preferenziali del loro gettito di contenuti, sono ormai di Hollywood i più importanti clienti, nonché, in prospettiva, potenziali proprietari: da una parte le grandi piattaforme di streaming, come Netflix; dall’altra, le cosiddette società “tecnologiche”, tra cui Apple e Amazon, a loro volta proprietarie dei servizi di streaming Apple Tv+ e Amazon Prime Video.HollywoodStudios-America2020Apple e Amazon sono solo le capofila di un’industria in rapidissima espansione, dove insieme a Facebook e Alphabet (Google) hanno raggiunto un valore combinato di mercato pari a quasi 5 trilioni di dollari. Tutti protagonisti, attuali o potenziali, di una fase di crescente aggregazione societaria caldeggiata da Wall Street, sempre più affamata di novità, che li attende puntuale al varco delle fatidiche trimestrali. Due mondi, quello dei grandi produttori di contenuti audiovisivi e quello delle “big tech”, sempre più compenetrati proprio in vista di probabili nuove operazioni di concentrazione societaria, simili a quelle che hanno recentemente visto AT&T acquisire il colosso Time Warner, nonostante l’aperta opposizione di Trump, e poco dopo Disney assorbire la Fox. Si ipotizza quindi che le “tecnologiche” si stiano preparando a impadronirsi delle poche società rimaste “indipendenti” sul mercato, come Lionsgate e ViacomCbs, magari dopo aver assistito ad una loro preventiva aggregazione finalizzata a rendersi più appetibili per il potenziale acquirente. Il nuovo presidente degli Stati Uniti glielo lascerà fare?

Va ricordato come attorno alle società tecnologiche nuotano come squali anche i grandi fondi di investimento, il Franklin Technology, il BlackRock e vari altri, e un pur piccolo cambiamento di policy da parte della Casa Bianca può avere ripercussioni importanti sulla valorizzazione delle enormi masse finanziarie che essi gestiscono. Insomma, ci sono in gioco interessi economici di proporzioni immense e che investono realtà economiche multiple in crescente interazione e sovrapposizione tra loro. Ma torniamo alle presidenziali Usa.

Non è un mistero che il versante “artistico” dell’industria dello spettacolo americana abbia tradizionalmente supportato in larga maggioranza il Partito Democratico, e che tale sostegno si sia spesso rivelato efficace nel sensibilizzare le masse dormienti almeno sui temi di base, come la necessità di uscire di casa e andare ad iscriversi alle liste elettorali. È quello che è successo proprio di recente con Ariana Grande, il cui invito ai suoi 280 milioni di follower su Instagram ha portato addirittura al blocco del sito elettorale della Florida. Ci sono attori che non esitano a esprimere la loro avversione a Donald Trump anche in modo aggressivo, come Robert De Niro, che lo ha definito un gangster e un inetto. Mentre altri, come James Woods e Jon Voight, lo difendono come paladino della sicurezza nazionale, arrivando a consacrarlo come “il più grande presidente americano dopo Abraham Lincoln”. Pur di non veder tornare Trump, a fine ottobre parte del cast della gloriosa serie Happy Days si riunisce online con un evento virtuale per la raccolta fondi a favore dei democratici: basterà un dollaro per collegarsi e rivedere Fonzie e amici a sostegno del Partito.

Joe Biden è da sempre considerato un alleato dell’industria del cinema: quando era vicepresidente ha apertamente sostenuto gli Studios nelle loro politiche di espansione verso la Cina, sino ad essere definito dall’allora capo della Motion Picture Association of America “il nostro campione alla Casa Bianca”. Assicurandosi così il sostegno politico ed economico di alcuni tra i più influenti player dell’industria hollywoodiana. Un po’ più a Nord neanche Silicon Valley sembra nascondere le proprie simpatie per i democratici, e da una recente analisi di Wired sui contributi versati alle campagne elettorali da parte dei dipendenti di alcune tra le “big tech” emerge un sostegno massiccio per Biden, anche se questo non riflette la posizione ufficiale delle loro aziende, cui la legge federale proibisce d’intervenire finanziariamente in relazione alle elezioni politiche.

Ma anche la vedova di Steve Jobs, Laurene Powell, e il co-fondatore di Facebook, Dustin Moskovitz, hanno versato il massimo consentito per i contributi personali al solo Biden Victory Fund. D’altra parte, il rapporto tra Trump e le società tecnologiche, specialmente quelle che gestiscono i social network, è da tempo fortemente conflittuale, come dimostrato dal tentativo di togliere di mezzo le app cinesi TikTok e WeChat, giudicate pericolose per la sicurezza nazionale, e dalle crescenti indagini dell’Antitrust su Amazon, Apple, Facebook e Alphabet (Google). In realtà, sia Hollywood sia la Silicon Valley hanno ragioni per temere tanto la presidenza repubblicana quanto quella democratica.

Sebbene le quattro “big tech” di cui sopra siano state formalmente indagate durante la presidenza Trump, e risale infatti a pochi giorni fa il rapporto conclusivo della commissione senatoriale sull’Antitrust che raccomanda l’adozione di misure per impedirne la crescita incontrollata, potrebbe essere Biden a dare la spinta definitiva per un argine sia politico sia legislativo al loro potere di mercato. Ridimensionando o “congelando” possibili fusioni o acquisizioni in un momento in cui Wall Street si aspetta, invece, investimenti continui da parte di chi siede su capitali di tali dimensioni: un portafoglio di quasi 250 miliardi di dollari già pronti ad essere convogliati su nuove acquisizioni, come quella con cui Google cerca da mesi, senza ancora riuscirci, di aggiudicarsi il gigante del fitness elettronico Fitbit. O con cui Amazon o Apple potrebbero, con relativa facilità, annettere uno o più di quei produttori di contenuti rimasti sul mercato e altrimenti destinati al possibile oblio in uno scenario dominato da Netflix e Disney+. Per qualche società nell’universo dell’entertainment che aspirava da tempo a finire in pancia a una delle “big tech”, questo stallo potrebbe avere effetti devastanti. Fatali.

Ma c’è anche la questione fiscale: nel programma democratico non è insignificante il tema di un inasprimento delle tasse societarie dal 21 al 28%, anche se ovviamente questo dipenderà molto dalle maggioranze che si formeranno al Congresso. A tutto ciò si aggiunge il nodo, cruciale, della Cina, un mercato chiave con il suo miliardo e più di potenziali “clienti” per l’export americano, sia per la distribuzione di film e serie da parte degli Studios sia per le esigenze delle industrie tecnologiche, che in quel Paese realizzano, e possono potenzialmente vendere, volumi enormi di prodotti e servizi. Democratici e repubblicani sembrano concordi nel voler mantenere una linea dura contro la Cina sotto il profilo degli scambi commerciali, anche se Biden ricorrerà probabilmente a strumenti di pressione più internazionalmente condivisi rispetto ai dazi.

Il nodo sarà come destreggiarsi tra il necessario sostegno all’export dello strategico prodotto audiovisivo, da un lato e, dall’altro, la lotta alla pirateria online e la tutela della proprietà intellettuale, dove la Cina non può certo ancora definirsi un modello di trasparenza e correttezza. Il tutto in piena emergenza Covid-19, con un rallentamento diffuso delle attività di produzione e distribuzione cinematografica e televisiva, che da molti mesi penalizzano fortemente l’industria internazionale dell’entertainment, ma quella americana in particolare. A questo si aggiunge il followup di una possibile elezione contestata che, come insegnano le presidenziali del 2000 e lo spettro di un riconteggio dei voti, può trascinare il mercato statunitense, e quello mondiale, verso un periodo di pericolosa incertezza nel quale Hollywood e la Silicon Valley hanno molto da perdere.