
di Guia Soncini (linkiesta.it, 9 giugno 2025)
Agli inglesi va peggio di tutti: il padre che mette in competizione tra loro le figlie per chi più lo ama (Re Lear), il padre che rompe i coglioni persino da fantasma pretendendo che il figlio (Amleto) vendichi la sua morte. Agli italiani non benissimo: nella drammaturgia locale il padre più noto è Luca Cupiello, ostinato costruttore di presepi che al figlio non piacciono, e alla fine il povero Tommasino è costretto a mentire per mitigare l’agonia paterna.
Agli americani pure non bene: un paio di decenni dopo Natale in casa Cupiello, il Willy Loman di Morte di un commesso viaggiatore si schianta in macchina acciocché quel debosciato del figlio incassi il premio assicurativo, visto che non è capace di provvedere a sé stesso. Insomma, Edipo che giace con sua madre («e una nuova professione era nata, una professione da duecento dollari l’ora, ore da cinquanta minuti perdipiù») è niente in confronto ai casini che combinano i padri: poteva il padre di Elon Musk fare eccezione? Secondo il giornalista del Kyiv Post Jason Jay Smart, l’arrivo a Mosca di Errol Musk per il Future Forum 2055 è uno dei modi in cui Putin vuole dividere e imperare: offrendo asilo politico a Elon a mezzo intortamento d’un padre disconosciuto ma del quale il lettore medio di tabloid penserà “è pur sempre il tuo papà”, come tocca sentirsi dire da sempre a qualunque figlio abbia genitori indecenti, dai figli di Medea a Meghan Markle.
L’intervista televisiva di papà Errol, in cui attribuisce lo scazzo via social tra il Donald e l’Elon a concretissime ragioni quali «sono molto stressati», sembra una scena di una versione maschile di Desperate Housewives, col personaggio che tenta di mantenere la reputazione familiare presso i vicini di casa pettegoli, nooooo, sembra che si vogliano prendere per i capelli ma in realtà si vogliono tanto bene, è che sono stressati dal lavoro. D’altra parte, se prendiamo Elon ed Errol per americani invece che per sudafricani (avranno una drammaturgia sudafricana? Se la conoscessi capirei meglio le loro dinamiche?), i Loman pur di non ammettere la loro sconfitta neanche in famiglia vanno risoluti incontro alla morte: ai tempi di Arthur Miller non era ancora stato inventato il concetto di stress, più salvifico (e più a buon prezzo) del suicidio, per salvarsi dal ridicolo in mondovisione.
La storia recente di Elon Musk abbonda di figure paterne. C’è il Donald che, ricostruisce il Washington Post, chiede a J.D. Vance di non prendere posizioni pubbliche troppo dure contro Elon, con protettività paterna diversa dalla sua abituale isteria da soubrette (che nella guerra dei tweet, o come si chiamano ora, Trump fosse stato più blando dei suoi abituali bisticci al fulmicotone, era evidente anche agli osservatori più distratti).
C’è Ted Cruz, senatore repubblicano, che paragona sé stesso e gli altri osservatori di quella faida familiare ai figli dei separati, che sperano che mamma e papà smettano di urlarsi addosso (in questo caso il Donald resta figura paterna ma Cruz assegna all’Elon il ruolo di mamma, avocando a sé quello di prole). E ci sarebbe (il condizionale è perché la scena la riferisce Steve Bannon, non esattamente l’antonomasia dell’attendibilità) Musk che fa una rissa con Scott Bessent, ministro del Tesoro, nei corridoi della Casa Bianca, e a quel punto Trump sbotterebbe come ogni padre i cui figli si menino: ora però basta. (In questa versione dei fatti, l’occhio nero di Musk verrebbe da Bessent; in quella di Musk, gliel’avrebbe fatto giocando uno dei suoi moltissimi bambini: sempre di paternità si tratterebbe).
Di qua, nella terra dei Cupiello, abbiamo invece il giovanotto, Simone Leoni, che al congresso giovanile di Forza Italia dice che lui è per il centro moderato, mica per Vannacci; il padre, Silvio (la vita è sceneggiatrice anche nell’assegnazione dei nomi ai personaggi), che lo rinnega perché tiene assai a quel presepe di cui Vannacci è figurina imprescindibile, e quindi le parole del figlio «mi hanno oltremodo ferito e disgustato» (Silvio è giornalista, l’unica categoria con una prosa peggiore di quella degli influencer); il figlio che a quel punto ci fa sapere che il padre l’ha abbandonato, che lui il padre a stento lo conosce, che non prova rancore ma non ha «condiviso nulla nei miei 24 anni di vita». Che è la stessa cosa che è accaduta a Elon, cresciuto con la madre, Maye, grande influencer, grande figura ingombrante, grande tifosa di Giorgia Meloni, grande smentitrice delle ipotesi che tra Giorgia e Elon ci fosse qualcosa di più che stima, affinità elettive, collaborazione professionale.
Mi pare che non ci vogliano studiosi di Freud o anche solo di Sofocle per notare che c’è un punto comune tra le due storie, quella delle cronache politiche italiane e quella delle cronache politiche statunitensi, che è un punto anomalo per queste due storie di conservatorismo: sono due storie matrilineari, due storie di padri assenti, due storie di figli che perorano un’idea di famiglia patriarcale, tradizionale, indissolubile, venendo da situazioni che sono tutto il contrario. È la stessa obiezione che viene fatta alla Meloni, che non solo è cresciuta senza padre ma ha pure, ohibò, fatto una figlia senza sposarsi, il che le viene prontamente rinfacciato da una sinistra abbastanza priva di senso del ridicolo da non avere ritegno nell’appropriarsi di argomenti che più da beghina non si potrebbe.
E invece sarebbe interessante (e quindi non avverrà mai: nessun dibattito interessante può avvenire nel tempo che ha inventato i like, lasciandoci solo gli slogan facili) capire cosa resti alla destra, cosa resti alla tradizione, cosa resti al conservatorismo nel secolo che dimostra ogni giorno lo slabbramento del maschile e l’incapacità dei padri d’essere adeguati al loro ruolo. La sinistra rinfaccia il disfacimento familiare agli esponenti della destra perché ha imparato da Hannibal Lecter che si desidera quello che si vede, ma non è detto che sia così: magari si desidera quel che non si riesce a intravedere più, ci si strugge per ciò che forse non sarà mai più la normalità, l’ovvio, la vita media dell’uomo qualunque.
Oggi Willy Loman parlerebbe alla telecamera del telefono cercando d’arrotondare con la pietà di clic e donazioni dei follower, e Luca Cupiello metterebbe in vendita i presepi; il «non mi piace» di Tommasino avrebbe il destino che hanno quei conflitti che non diventano delitto e plastico di Vespa: sarebbe il siparietto sotto il quale possiamo tutti correre a commentare che anche noi troviamo noiosi gli hobby dei nostri consanguinei, ma è-sempre-il-tuo-papà.