
di Carole Hallac (linkiesta.it, 7 maggio 2025)
Il Met Gala è l’evento mondano per eccellenza di New York, ma al di là dello sfarzo e dei riflettori su celebrità e abiti da red carpet, segna anche l’apertura della mostra annuale del Costume Institute al Metropolitan Museum of Art. Quest’anno l’esposizione, intitolata Superfine: Tailoring Black Style, esplora il dandismo come espressione estetica e politica all’interno della diaspora africana, dalle corti europee del XVIII secolo alle passerelle contemporanee.
Ispirata al libro Slave to Fashion (2009) di Monica L. Miller, che ha curato la mostra insieme ad Andrew Bolton, l’esposizione esplora lo stile come gesto di distinzione, affermazione e resistenza nella storia nera. Divisa in dodici sezioni, la mostra attraversa secoli di Storia, esplorando il dandismo black nelle sue molteplici espressioni: dal travestimento come strategia di fuga, alla rottura dei codici di genere, fino all’ascesa degli stilisti neri tra gli anni Sessanta e Ottanta, come Dapper Dan, che ha fuso l’estetica del lusso europeo con la cultura e lo stile dell’hip hop. Il percorso arriva infine a protagonisti contemporanei come Pharrell Williams e Virgil Abloh, noti per il loro lavoro con Off-White e Louis Vuitton.
Superfine va oltre la rassegna sartoriale, è una narrazione visiva e materica, costruita attraverso capi d’abbigliamento, fotografie e oggetti che raccontano le vite e le scelte stilistiche di figure chiave della cultura nera. Tra i pezzi forti, il celebre zoot suit reso iconico da Cab Calloway e i musicisti del Cotton Club, la blusa del tour Purple Rain di Prince – che, sulla scia di Little Richard, includeva nel suo guardaroba elementi femminili come pizzi e paillettes – e gli abiti sartoriali di Muhammad Ali, simbolo di eleganza e fierezza anche fuori dal ring.
Tra le figure celebrate, spicca quella di André Leon Talley, influente giornalista di moda e primo direttore creativo afroamericano di Vogue: il suo caftano, simbolo di regalità e orgoglio, incarna uno stile fuori misura tanto quanto la sua personalità. Compaiono anche due figure chiave del dandismo androgino: un ritratto di Josephine Baker e poi Grace Jones, rappresentata da un ensemble di Jean Paul Gaultier.
Sin dall’ingresso, la mostra interpella lo spettatore: ad accoglierlo sono le livree lussuose indossate da cocchieri, valletti e camerieri, spesso uomini neri ridotti in schiavitù, usate dai padroni per ostentare ricchezza e prestigio. Più avanti si osservano le uniformi dei fantini neri, anch’essi schiavi, confezionate in seta e nei colori della livrea dei loro padroni, a indicare appartenenza e gerarchia. Sia in schiavitù sia da uomini liberi, molti fantini celebravano i propri successi indossando le mode più raffinate del tempo. Il dandismo nasce anche in risposta a questa oggettificazione: un modo per reclamare la propria individualità e umanità attraverso l’eleganza.
Il ritratto del celebre Julius Soubise – nato schiavo nei Caraibi e portato in Inghilterra dalla duchessa di Queensbury, che lo educò alle arti della vita da gentiluomo – apre uno sguardo su una figura fuori dagli schemi. La sua ascesa sociale coincise con l’apice della moda dei macaronis, uomini noti per i loro abiti attillati e sgargianti e per i modi affettati che li rendevano bersaglio di satira nella Londra degli anni Settanta del Settecento.
In un’epoca in cui le persone nere ridefinivano la propria identità tra schiavitù ed emancipazione, i dandy black come Soubise trasformavano l’invisibilità imposta in una presenza scenica, affermando sé stessi attraverso uno stile personale, talvolta provocatorio. Allo stesso modo, Alexandre Dumas padre, il primo generale di discendenza africana nell’esercito napoleonico, è raffigurato nel suo ritratto con un’eleganza che fonde autorità militare e stile civile – stile poi immortalato nei suoi romanzi più celebri, I tre moschettieri e Il conte di Montecristo.
A volte l’abito si trasformava in uno strumento di liberazione. Nelle loro memorie del 1860, esposte nella sezione della mostra dedicata al travestimento, William ed Ellen Craft raccontano la loro audace fuga dalla schiavitù in Georgia. Ellen, dalla pelle chiara, si finse un gentiluomo bianco dell’alta società, mentre William interpretò il ruolo del suo servitore nero. «Andavo in diverse parti della città, in orari insoliti, e compravo le cose un pezzo alla volta» scrive William, ricordando come Ellen, abile sarta, adattasse e trasformasse gli abiti per rendere credibile la messa in scena.
La mostra dedica poco spazio a fenomeni culturali africani come La Sape, nato in epoca coloniale in Congo, dove l’eleganza in stile europeo divenne una forma di affermazione personale e resistenza simbolica. Tra i principali interpreti presenti in Superfine, il designer Ozwald Boateng, che iniziò a diciott’anni come apprendista a Saville Row e reinventò la sartoria britannica con tagli slim e colori vivaci ispirati ai Sapeurs, portandola sulla scena globale.
Fiore all’occhiello della mostra sono gli indumenti di Frederick Douglass, che testimoniano come l’eleganza potesse diventare una dichiarazione politica. Come Douglass, con la sua impeccabile eleganza, anche il noto attivista W.E.B. Du Bois indossava sempre in abiti su misura, usando l’estetica per comunicare forza, intelletto e orgoglio in un’epoca in cui l’aspetto era un potente strumento di rappresentazione.
Il titolo Superfine, come ricorda la Miller, non allude solo alla qualità dei tessuti, ma anche a un atteggiamento: sentirsi bene nel proprio corpo, abitare con consapevolezza il proprio stile e trasformare l’abbigliamento in un atto di affermazione. In un momento in cui il mondo della moda riflette sul suo rapporto con l’inclusività e la Storia, la mostra offre una riflessione lucida e potente su come l’apparenza possa diventare sostanza, e l’eleganza un atto radicale.