
di Giulio Zoppello (wired.it, 1° ottobre 2025)
Thrilla in Manila compie mezzo secolo e continua a insegnarci una cosa fondamentale: sport e politica sono sempre stati connessi. Quel terzo, drammatico match tra Muhammad Ali e Smokin’ Joe Frazier fu anche l’atto conclusivo di una guerra politica e culturale che aveva trasceso la boxe, diviso gli Stati Uniti e il mondo intero.
Quel 1° ottobre del 1975, sul ring, c’erano molto più di due fuoriclasse della nobile arte. Thrilla in Manila, “Dramma a Manila”. Questo il titolo che fu dato a quel match di boxe, andato in scena il 1° d’ottobre del 1975. Sul ring c’erano loro due: Muhammad Ali contro Smokin’ Joe Frazier. Dopo mezzo secolo quell’evento sportivo continua a essere avvolto da una luce mitologica. Questo perché divise una nazione in preda a una conflittualità senza tregua, ne mostrò le divisioni insanabili, la contrapposizione che la dominava.
L’atto finale della trilogia più importante della storia della boxe vide ogni americano, e non solo, tifare non sulla base di una preferenza tecnica o umana, ma soprattutto a seconda del proprio credo politico. Quella rivalità aveva avuto in quegli anni un peso culturale, politico, che nessun’altra avrebbe mai pareggiato. La boxe nei primi anni Sessanta aveva fatto scoprire al mondo lui, “il labbro di Louisville”, al secolo Cassius Marcellus Clay, ma Muhammad Ali da diverso tempo ormai.
Thrilla in Manila arrivò in un momento storico a dir poco complicato per gli Stati Uniti. Il Paese aveva da poco preso atto della sconfitta patita in Vietnam, e doveva vedersela con una crisi economica e politica profondissima. Il ’68 aveva portato profondi mutamenti nella società, connessi alle lotte per i diritti civili, ed erano rappresentati sul ring da quel pugile magnifico dal footwork irreale e dalla personalità dirompente. Ali si era convertito all’Islam e alla lotta politica grazie a Malcolm X, poi era diventato il volto dei Black Muslims di Elijah Muhammad, mentre Martin Luther King continuava ad alzare il livello della lotta per gli afroamericani.
A King era costato la vita, prima di lui a Malcolm X, poi a Jfk e a suo fratello Bobby. Alla sinistra americana, agli ultimi, ai progressisti, a Bernstein e i suoi radical chic, ai giovani che volevano un futuro migliore, alle minoranze, tutto ciò che rimaneva era lui: Muhammad Ali. Per l’atleta più politicizzato mai esistito, Thrilla in Manila era anche l’occasione per la vittoria finale contro l’America conservatrice, che in lui aveva il simbolo di tutto ciò che odiava.
«Nessun vietcong mi ha mai chiamato ne*ro!»: questa frase aveva reso Ali il nemico di metà del Paese, quello che non digeriva la disobbedienza, che credeva nella teoria del domino comunista, che aveva votato entusiasticamente due volte per Richard Nixon. C’era in mezzo anche l’America che pensava che un nero dovesse “stare al suo posto”. Ogni volta che lo vedevano combattere, tifavano per il suo avversario, chiunque egli fosse. La sua disobbedienza alla leva, lo aveva reso nemico dell’Fbi di Hoover e di tutto il fronte trasversale conservatore.
Ma sul ring rovente di Manila quella sera Ali aveva contro lui: Smokin’ Joe Frazier. Figlio di braccianti del South Carolina, Frazier era fin dall’infanzia più povero, più disperato, più “nero” di Ali. Il pugilato lo aveva salvato, reso un uomo rispettato per coraggio e abnegazione. Frazier era la personificazione della teoria del calabrone applicata alla boxe: la sua conformazione fisica non era adatta ai pesi massimi, ma lui non lo sapeva ed è diventato campione lo stesso. Era successo durante l’esilio di Ali, quando The Greatest girò il mondo come un leader politico (cosa che di fatto era) collezionando amore, fan, odio razziale e minacce di morte.
Frazier era stato come lui oro olimpico, come lui era orgoglioso di essere afroamericano, condivideva le idee di Ali ma non era altrettanto attivo politicamente. Erano diversi caratterialmente, al narcisismo, al carisma e alla parlantina di Ali, Frazier opponeva un carattere più timido, semplice, apparentemente mansueto. Alto poco più di 1 e 80, non aveva un grande talento tecnico, non volava come una farfalla né pungeva come un’ape, ma compensava con ritmo, ardimento e un gancio sinistro pauroso.
Dopo Rocky Marciano e prima di Mike Tyson c’è stato lui, un vero e proprio tasso del miele, un aggressore totale. Erano stati amici, poi semplicemente rivali, ma nella decisione di Ali di alzare il livello dello scontro si palesava una certa visione del mondo per la quale non abbracciare la sua causa al 100% equivaleva a essere un nemico. Frazier aveva aiutato economicamente Ali, quando questi era stato in difficoltà, e aveva chiesto di persona a Nixon di ridargli la licenza.
Quattro anni prima, il loro primo match, Fight of Champions, era stato organizzato e montato ad arte da tutti e due, di comune accordo. Ma anche allora il livello di politicizzazione era stato palese. Aveva vinto (per la gioia della destra americana) Frazier, mettendo a segno un atterramento diventato leggendario. Diventò, senza volerlo, un eroe per lo stesso fronte in gran parte ostile alla sua gente. Ma quegli americani che lo vedevano cantare l’inno fieramente, invece di bruciare la bandiera o alzare il pugno guantato di nero, cercavano a tutti i costi una figura alternativa ad Ali. I media non aspettavano altro per cavalcare l’onda di questa rivalità. Bryant Gumbel, sul Today, si chiese: Joe Frazier è un pugile bianco con la pelle nera?
La politica fece vendere il match in tutto il mondo e, come sempre, Ali sapeva che la cosa giocava a suo favore. Chiamò Frazier gorilla, ignorante, e poi Zio Tom. Non c’era insulto peggiore per un nero, e per questo tra i due finì persino a botte in diretta televisiva. Il trash talking Ali lo usava per sottomettere mentalmente gli avversari, non solo per rivendicare le sue idee. Mandò fuori di giri pugili come Sonny Liston, George Foreman, ma con Frazier significò semplicemente mettere altro carburante nel suo serbatoio emotivo. Thrilla in Manila per Joe era la rivincita. Per il tradimento che sentiva di aver subito dall’ex amico, per i figli bullizzati a scuola, per il cane ucciso, la macchina bruciata da chi lo credeva un amico del potere bianco.
Giornalisti, opinionisti, politici fecero a gara a dire la loro sul match. Il mondo era col fiato sospeso, e ancora oggi ci si chiede come sia stato possibile che nessuno dei due, tra il caldo afoso e una violenza raccapricciante applicata a sé stesso e all’avversario, non sia morto. Si scambiarono colpi allucinanti, senza mai fermarsi. Frazier era cieco da un occhio, il motore non era più quello del 1971 ma bastò per portare Ali ai limiti del collasso.
Un miliardo di persone guardò Thrilla in Manila, fu uno degli eventi globali più incredibili di sempre. E in tutto il mondo si pensava che Destra e Sinistra stessero combattendo su quel ring. Dopo quattordici round allucinanti (l’esperienza più vicina alla morte, la definirà Ali), fu Eddie Futch, l’allenatore di Joe, a fermare il suo ragazzo, salvando forse la vita a tutti e due. Non saranno più gli stessi dopo quel match, ma non lo sarà neppure l’America. Si può dire che quell’incontro fu l’atto finale di uno scontro globale, della volontà di donne, minoranze, giovani e pacifisti di avere un mondo diverso.
L’onda ormai si era fermata, la fallimentare presidenza di Jimmy Carter segnerà un progressivo disimpegno anche in ambito sportivo. Gli eredi di Ali, come Sugar Ray Leonard, Larry Holmes, Hagler, non si sogneranno nemmeno per un istante di abbracciare la sua essenza di rivoluzionario. Il decennio successivo vedrà la commercializzazione estrema dello sport e degli atleti neri, dall’Nba alla Nfl, dal calcio fino alla boxe, fino a Mike Tyson, Re Mida dei dollari e dei KO. Thrilla in Manila fu l’atto finale della più grande rivalità della storia dello sport, resa tale non solo dall’antitesi che ognuno dei due pugili rappresentava rispetto all’altro umanamente, tecnicamente, ma per ciò che la gente volle vederci.
La sua potenza semantica ancora oggi travalica i limiti dello sport, quello sport i cui beniamini oggi sono tornati a impegnarsi in politica, da LeBron James a Serena Williams, da Lewis Hamilton a Megan Rapinoe. Lo fanno in un momento in cui negli Stati Uniti, e non solo, una certa parte politica cerca di sdoganare ancora una volta il fascismo, in un mondo di nuovo diviso da una Cortina di Ferro come nel 1975. Ma, per quanto ci provino, non riusciranno mai a creare ciò che su quel ring infuocato andò in scena quel 1° ottobre del 1975, un momento cardine del XX secolo.