
di Giovanni Cortesi (linkiesta.it, 10 settembre 2025)
C’era una volta una nobile arte, una fra le più raffinate e aristocratiche: quella di risolvere pacificamente le controversie internazionali attraverso dialogo, incontri cerimoniosi ed etichette impeccabili. Il suo nome era diplomazia. “C’era una volta”, perché ora quell’arte sembra morta e sepolta.
E in tutto ciò i social c’entrano, c’entrano eccome. Fra le virtù del diplomatico dovrebbe spiccare la moderazione: la misura nei modi, e soprattutto nelle parole. «Orco», «bullo», «rocket man», «cervello-spazzatura», «clown», «bandito», «nani mutanti» e tante altre locuzioni, tuttavia, non suonano propriamente come delle uscite diplomatiche. Eppure son state pronunciate da capi di Stato o di governo: da Donald Trump a Emmanuel Macron, passando per Xi Jinping e Javier Milei. Che di diplomazia dovrebbero intendersene, dal momento che rappresenta – o dovrebbe rappresentare, quantomeno – il mezzo per realizzare i propri obiettivi di politica internazionale.
La diplomazia tradizionale continua a esistere, ovviamente, ma i politici sono diventati sempre meno diplomatici: alla parola come strumento di mediazione e di pace si è infatti sostituita la parola come strumento di offesa, come esibizione di forza. Non solo gli insulti riportati qui sopra: basti ricordare il bilaterale nello Studio Ovale fra Donald Trump e Volodymyr Zelensky del febbraio del 2025, in cui il presidente ucraino venne attaccato dal suo omologo americano e dal suo vice J.D. Vance in un confronto pubblico senza precedenti, segnato da violenza verbale e prepotenza dei modi. In mondovisione.
Più recentemente, durante la parata militare del 3 settembre, Xi Jinping ha detto: «Nessun bullo potrà fermarci». Un messaggio di sfida all’Occidente, e in particolare a Trump, dipinto come un guappo. Oppure ancora, il 6 settembre, la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha definito i leader dei Paesi dell’Unione europea come «i sette nani di Trump, ma mutanti», perché invece di aiutarlo lo ostacolerebbero nella via verso la pace. Insomma, un’altra dichiarazione discutibilmente cortese e diplomatica.
La grammatica della diplomazia internazionale è cambiata profondamente, con i social network, e questo lo si riscontra nella crescente partecipazione dei politici alle piattaforme. Già nel 2018, il rapporto Twiplomacy – ossia la “diplomazia su Twitter”, ora X – indicava come il 97% dei Paesi membri dell’Onu avessero una presenza ufficiale sul network, e che negli ultimi sei anni (2012-2018) gli account Twitter di capi di Stato o di governo fossero più che triplicati, passando da 264 a 951. Solo su Twitter. Questa tendenza è aumentata ancora, negli ultimi anni, e coinvolge anche Facebook, Instagram e TikTok, a sottolineare il sempre maggiore legame tra social e politica – basti ricordare le memorabili dirette Facebook di Matteo Salvini e Luigi Di Maio di qualche anno fa.
Un legame che, ovviamente, coinvolge anche la diplomazia, tanto che in ambito accademico si parla ormai di digital diplomacy, diplomazia digitale. La Schiller International University riconosce infatti quanto i social media siano diventati «una forza influente nel dare forma all’opinione pubblica, nel mobilitare le popolazioni, nell’influenzare le decisioni politiche». La diplomazia, si continua a leggere nell’articolo dell’università americana, era prima «confinata in meeting a porte chiuse e in dichiarazioni ufficiali, ma ha ora espanso il suo pubblico attraverso piattaforme come Twitter, Facebook e Instagram».
È proprio questa la differenza cruciale, lo scarto fondamentale tra la diplomazia tradizionale e la nuova diplomazia digitale: la presenza di un pubblico, di spettatori. La massa di utenti social è già opinione pubblica, è potenziale elettorato: condividendo lo stesso piano della piattaforma, sembra annullarsi la distanza fra popolo e politici. La diplomazia finisce così per rientrare nella logica della campagna politica in modo diretto, si trasforma in propaganda, in demagogia. Le piattaforme diventano palcoscenici, i politici attori populisti, gli scambi si caricano di pathos, diventano show per il pubblico di follower (e non), che in caso di attriti diventa spettatore di schermaglie al vetriolo tra i big.
Tutto si trasforma in spettacolo, in costruzione dell’immagine e dell’immaginario collettivo, del leader carismatico che dilaga in personalismo di partito. E siccome per ragioni di profitto gli algoritmi social promuovono non la qualità dei contenuti ma il traffico dati, rendendo più virale e pubblicizzato tutto ciò che ottiene maggiori reazioni e condivisioni, il politico sa benissimo che più ci andrà giù pesante, più godrà di preziosa visibilità. Sul palco sia internazionale sia nazionale, in campo sia macho-diplomatico sia demagogo-elettorale. In fondo, è nella natura stessa del mezzo, l’incentivare populismo, spettacolarizzazione, sensazionalismo.
Eppure questa nuova diplomazia social non sembra portare grandi vantaggi, nella percezione comune: l’ultimo rapporto Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, uno dei più importanti enti internazionali di studi economici) del 2023 ha dimostrato come ben il 44 per cento della popolazione nei 30 Paesi esaminati non abbia fiducia nelle istituzioni nazionali, o ne abbia poca. Una percentuale maggiore di coloro che di fiducia ne hanno moderata o alta, il 39 per cento (i rimanenti si sono detti neutrali). Un dato, per altro, in crescita: il 2 per cento di sfiducia nelle istituzioni in più, rispetto al 2021.
L’atteggiamento spaccone e demagogico che accompagna spesso la digital diplomacy, in altre parole, non aggiunge credibilità, né efficacia. Paradigmatico il caso di Trump, con le sue promesse elettorali roboanti poi smentite miseramente dai fatti, come quella di chiudere la guerra in Ucraina «entro ventiquattro ore» dalla sua elezione, o anche prima di entrare in carica: tra l’agosto del 2023 e il maggio del 2024 l’avrebbe ripetuto cinquantatré volte. Oppure, il suo eterno rimandare decisioni cruciali di due settimane. Oppure ancora, per finire, l’aver definito l’Europa un «parassita», un «nemico» commerciale, causando un grave allontanamento politico dai suoi storici alleati.
Per nuovi scenari servono nuove parole. Nel gergo rap si usa l’espressione dissing per indicare uno scontro verbale in rima, una provocazione che il più delle volte prende le forme dell’insulto a distanza: si potrebbe concludere che ci troviamo in una dissingplomazia. Ovvero: benvenuti nell’era della diplomazia-dissing, dove i politici – per mostrare chi è più forte e ottenere maggior seguito elettorale, tanto sui social quanto poi alle urne – si attaccano l’un l’altro a malelingue. Come dei rapper.