Gli effetti di un video di bombardamenti tra una ricetta e un balletto

TikTok

(ilpost.it, 26 giugno 2025)

«Il prezzo dell’eterna vigilanza è l’indifferenza». Il sociologo canadese Marshall McLuhan, uno dei più influenti pensatori del Novecento, utilizzò questa frase nel 1964 a proposito della Guerra Fredda, per descrivere una reazione umana inevitabile quando la minaccia di attacchi reciproci tra Paesi dotati di armi nucleari diventa perenne.

Alla fine, giunte a un punto di saturazione della loro attenzione, le persone smettono di allarmarsi. La frase di McLuhan è facilmente adattabile a diverse situazioni del presente. Una di queste è la continua esposizione degli utenti dei social media a video e foto che, indipendentemente dal tipo di informazioni che veicolano, si contendono ogni giorno l’attenzione collettiva fino a esaurirla. È un dibattito in corso da tempo, animato dalle preoccupazioni di molti per il fatto che video di ricette di cucina, bombardamenti, consigli medici e coreografie di balletti si alternino senza un chiaro criterio di priorità su piattaforme sviluppate sulla base di decisioni ingegneristiche che massimizzano i profitti: principalmente Instagram, TikTok e X.

Una conseguenza immediata di questo modello di distribuzione delle informazioni è una generale omologazione del formato, con tutti gli effetti che ne derivano. Nelle settimane e nei mesi scorsi clip che mostravano bombardamenti in Iran e attacchi israeliani a Gaza, inclusi video vecchi e decontestualizzati e altri creati con l’Intelligenza Artificiale, hanno avuto un’estesissima circolazione sulle stesse app che le persone usano ogni giorno non soltanto – né prevalentemente – per informarsi.

Tra quei video e quelli che mostrano challenge social, animali messi in salvo o tecniche alternative di lievitazione dell’impasto della pizza non ci sono differenze formali. Hanno spesso la stessa durata, le stesse didascalie e lo stesso montaggio delle scene, e generano a loro volta reazioni che condividono uno stesso linguaggio fatto di slogan, meme e hashtag. Per esempio, nei giorni successivi ai bombardamenti israeliani sull’edificio della tv di Stato iraniana a Teheran, diversi account avevano pubblicato video in cui irridevano la presentatrice che aveva annunciato l’attacco in diretta, mentre dei calcinacci le cadevano addosso.

Tralasciando i video di cattivo gusto e la disinformazione, anche i tentativi più apprezzabili e intellettualmente onesti di condividere informazioni sono esposti agli stessi rischi di omologazione sui social media. Il modo in cui sono costruite le piattaforme, con «i loro limiti di spazio e la loro calibrazione in base a like, condivisioni e viralità», le rende poco adatte a «mediare la complessità», scrisse a dicembre del 2023 sul sito The Conversation Nir Eisikovits, professore di Filosofia e direttore dell’Applied Ethics Center all’Università del Massachusetts, a Boston.

L’omologazione è direttamente collegata al fatto che i contenuti sono mostrati e suggeriti in base agli interessi specifici di ciascun utente e alla capacità di attirare attenzione, generare engagement e prolungare l’utilizzo delle piattaforme. Video e foto di scene violente, la cui pubblicazione è limitata da regolamenti più o meno elastici, tendono chiaramente a essere molto efficaci. «Sappiamo che ciò che mantiene le persone interessate sono i contenuti scandalosi, dannosi, carichi di odio e osceni», ha detto al Washington Post Sandra Wachter, professoressa di Tecnologia e regolamentazione all’Università di Oxford.

Per esempio Meta, l’azienda proprietaria di Facebook e Instagram, vieta la maggior parte di contenuti che mostrano contenuti espliciti o molto violenti, come video di persone carbonizzate o corpi smembrati. Ma ne ammette altri potenzialmente impressionanti, come procedure mediche, incidenti stradali ed esplosioni, nascosti dietro l’avviso «contenuti sensibili». E questi margini di ammissibilità sono variamente sfruttati per interessi economici.

Dopo i recenti bombardamenti israeliani in Iran, un’organizzazione citata da Bbc News che si occupa di verifica dei contenuti on line ha definito «sbalorditivo» il volume di disinformazione generato da «produttori di engagement» che traggono profitto dalla guerra. Su X i follower di un account filo-iraniano senza apparenti legami con l’esercito, Daily Iran Military, sono aumentati da poco più di 700mila il 13 giugno a 1,4 milioni il 19 giugno.

Gli algoritmi delle piattaforme sono ottimizzati in modo da rendere molto probabile, in quanto più redditizio, vedere contenuti con cui le persone sono d’accordo oppure altri che le indignano o le sconvolgono (o entrambe le cose). Il che significa che il più delle volte usare i social media non genera nuova conoscenza, come scrisse Eisikovits, ma iperstimola emozioni già forti. Esiste però il rischio che un eccesso di stimoli violenti li normalizzi e produca una progressiva assuefazione emotiva.

È un fenomeno studiato da tempo, non limitato ai social ma valido anche per i videogame e altri media. Indipendentemente dalla correlazione con eventuali comportamenti violenti, difficile da provare, l’esposizione abituale a contenuti violenti tende a ridurre le reazioni fisiologiche normalmente associate a stimoli intensi: l’aumento della frequenza cardiaca, per esempio, ma anche l’attività cerebrale in determinate aree del cervello.

L’effetto dell’assuefazione è studiato anche in ambito informatico, come un fattore in grado di influenzare negativamente l’efficienza delle reti. Quando una rete è strutturata in modo che i suoi membri ricevano vari stimoli da fonti diverse (per esempio news, foto di amici, pubblicità, campagne di sensibilizzazione, fake news), i messaggi sono a volte ripetuti con l’obiettivo di renderli più influenti. Quei messaggi tendono però a diventare invadenti e, alla fine, a essere ignorati. È un fenomeno osservato anche nella pubblicità on line: utenti assuefatti mostrano una scarsa reattività di fronte a messaggi caotici e visivamente molto insistenti.

L’ipotesi che i messaggi trasmessi dai mezzi di comunicazione di massa potessero portare a una riduzione dell’attenzione del pubblico circolava già da molto prima che l’effetto degli stimoli sull’attività cerebrale, per esempio, fosse osservabile tramite strumenti diagnostici evoluti. Ad alimentare questo dibattito, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, era stata in particolare la diffusione della televisione. Nel libro Gli strumenti del comunicare, da cui è tratta la prima frase di questo articolo, McLuhan distinse i media in caldi e freddi, riprendendo una distinzione tra hot jazz, più schematico, e cool jazz, più sregolato e sospeso.

McLuhan scrisse che i media caldi, come il cinema e la radio, veicolano messaggi completi, che contengono molti dati e non richiedono al pubblico d’integrarli. I media freddi, come la tv e il telefono, richiedono invece a chi li utilizza «un livello straordinario di partecipazione» per completarne le informazioni. Utilizzando la distinzione proposta da McLuhan, che non è stabile nel tempo ma può variare a seconda dei tempi e del contesto, anche i social – come la tv – possono essere considerati media freddi.

Il loro flusso ininterrotto di immagini e video richiede e assorbe una grande quantità di attenzione e di partecipazione, spesso superiore a quella che le persone sono in grado di offrire. La capacità di quegli stimoli di suscitare reazioni è inoltre ridotta da una tendenza umana inevitabile a «raffreddare» qualsiasi esperienza intensa, perché «se dovessimo accettare pienamente e direttamente qualsiasi attacco alle diverse strutture della nostra consapevolezza, diventeremmo ben presto relitti nervosi che ad ogni minuto sobbalzano o premono un campanello d’allarme».

Secondo McLuhan le tecnologie e i media sono semplicemente un’estensione dei corpi e dei sensi umani, e serve una particolare vigilanza critica e morale per evitare che ogni nuova tecnologia, a forza di «cullare» e assorbire l’attenzione, generi intorpidimento. «Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti», scrisse McLuhan: «è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre».

In anni più recenti un rischio simile a quello descritto da McLuhan è stato trattato anche in termini di intorpidimento emotivo, come un esaurimento della capacità di provare empatia e compassione. È una condizione definita “affaticamento da compassione”, di solito trattata come un rischio comune tra gli operatori sanitari. Ma è stata utilizzata anche per descrivere situazioni in cui le persone sono costantemente distratte e disorientate da un sovraccarico di messaggi enfatici e preoccupanti, cui corrisponde una progressiva diminuzione della loro preoccupazione.

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