La Silicon Valley è pronta ad andare in guerra

Secretary of the Defense of the United States of America via X

di Andrea Daniele Signorelli (wired.it, 30 giugno 2025)

Affidereste le sorti belliche della vostra nazione a un battaglione di nerd? Molto probabilmente no. Eppure, un piccolo gruppo di ingegneri informatici di primissimo livello provenienti dalla Silicon Valley è stato da poche settimane arruolato come riservista dell’esercito statunitense.

Una notizia che racconta moltissimo non solo di come stia cambiando il campo di battaglia, ma anche del mutato clima politico all’interno delle Big Tech: «C’è un sacco di patriottismo che è stato a lungo tenuto nascosto e che adesso sta venendo alla luce» ha spiegato al Wall Street Journal Andrew Bosworth, direttore tecnico di Meta. Bosworth – assieme a Kevin Weil e Bob McGrew, rispettivamente responsabile del prodotto ed ex responsabile della ricerca di OpenAI, ai quali si aggiunge Shyam Sankar, direttore tecnico di Palantir – è infatti uno dei quattro dirigenti tech assoldati in quello che è stato ironicamente chiamato “Army Innovation Corps” – Corpo degli ingegneri degli Stati Uniti (il nome ufficiale del programma è Detachment 201).

Non sanno niente di strategia bellica e non imbracceranno mai il fucile contro gli avversari degli Stati Uniti. E allora che ruolo svolgeranno nelle 120 ore l’anno in cui dovranno indossare l’uniforme? La risposta è abbastanza intuibile: si occuperanno di velocizzare l’integrazione a scopo bellico dei sistemi di Intelligenza Artificiale (ma senza essere coinvolti nei progetti che riguardano direttamente le loro aziende e senza condividere informazioni con i datori di lavoro) e di addestrare i soldati per utilizzare al meglio questi strumenti.

E pensare che fino a poco tempo fa le policy di praticamente tutti i colossi della Silicon Valley (a partire da Meta) vietavano esplicitamente la collaborazione con l’esercito, mentre chi provava a ignorare l’ethos al tempo prevalente doveva letteralmente pagarne il prezzo: nel 2018, per esempio, circa tremila dipendenti di Google protestarono contro il coinvolgimento dell’azienda nel progetto del Pentagono denominato Maven (che prevedeva di sviluppare un sistema di riconoscimento di immagini ed elaborazione dati a scopo bellico), costringendo il colosso di Mountain View a rinunciare al lucroso contratto e a subire lo smacco di vedere due dei suoi più acerrimi rivali – Microsoft e Amazon, che non si sono mai fatti scrupoli di questo tipo – prenderne il posto.

Quanto sia drasticamente cambiata la situazione lo mostra ciò che è avvenuto quando, nell’aprile del 2024, i dipendenti di Google hanno provato ancora una volta a protestare contro l’utilizzo da parte dell’esercito israeliano di alcune tecnologie sviluppate da Big G nell’ambito del progetto Nimbus. Risultato? Cinquanta ingegneri licenziati per aver preso parte alle proteste e nessuna retromarcia, nemmeno parziale, da parte di Google.

Il clima che si respira oggi nella Silicon Valley è molto differente, la maschera progressista che le Big Tech hanno a lungo indossato è stata infine calata (come mostrato plasticamente dall’ormai storica foto che ritrae i principali “broligarchs” celebrare l’insediamento di Donald Trump), e adesso nessuno sembra più farsi scrupoli a seguire la strada tracciata dalle due più note realtà del settore “defence tech”: Palantir e Anduril, aziende fondate rispettivamente dall’eminenza grigia della tech-right Peter Thiel e dal guerrafondaio Palmer Luckey (già noto per aver fondato Oculus, poi acquistata da Meta, e per rilasciare dichiarazioni come: «Vogliamo costruire tecnologie che ci diano la capacità di vincere facilmente ogni guerra»).

Se Palantir si occupa di sviluppare software di data analytics destinati a governi ed eserciti (il suo prodotto principale è Gotham, usato da agenzie d’intelligence e forze armate per missioni antiterrorismo e operazioni militari), Anduril costruisce invece principalmente hardware per la difesa, come il drone Altius-600M, in grado di identificare in autonomia il nemico e di esplodere all’impatto, l’aereo da guerra autonomo Fury e il sottomarino da battaglia Dive-LD. Il suo prodotto di punta è però probabilmente Lattice, un sistema operativo militare che gestisce flotte di droni, torrette e radar. I suoi contratti sono principalmente con il Dipartimento della Difesa, i Marines e la Marina (Navy) statunitense, che hanno consentito ad Anduril di raggiungere nel 2024 un fatturato da un miliardo di dollari e una valutazione da 14 miliardi.

Dietro le due capofila del settore, troviamo una lunga serie di startup defence tech: C3AI, Epirus, Saronic, ScaleAI, ShieldAI, True Anomaly. Tutte caratterizzate dalla promessa – esplicitata nella mission riportata sui loro siti – di «aumentare le capacità militari degli Stati Uniti e dei suoi alleati» (spesso impreziosita da qualche vago riferimento alla democrazia e alla «sicurezza globale») e dal fatto di aver raggiunto una valutazione minima da un miliardo di dollari. In una fase in cui i venti di guerra soffiano fortissimi e fanno aumentare di conseguenza anche il valore dei contratti governativi, potevano le Big Tech farsi sfuggire l’occasione di arricchirsi grazie alla generosità dell’amministrazione Trump, che – per usare le parole dell’ex dirigente del Pentagono e oggi investitore Mike Brown – «sta dando un’accelerata col turbo all’acquisto di tecnologia commerciale da parte degli Stati Uniti?».

Al di là delle agguerrite startup, le protagoniste indiscusse del settore sono ancora le realtà che per prime hanno accettato di lavorare per la difesa. Amazon nel 2022 ha rinnovato il suo contratto da 10 miliardi di dollari per fornire servizi cloud alla National Security Agency. Microsoft ha invece rinunciato a costruire i visori in Realtà Aumentata per l’esercito, ma si può consolare con i 9 miliardi – condivisi con Google e Oracle – legati al contratto per fornire servizi cloud al dipartimento della Difesa statunitense e all’esercito israeliano (Idf). Sempre l’Idf ha ottenuto, tramite Microsoft, un accesso “su larga scala” a GPT-4, il large language model che alimenta ChatGPT (che potrebbe essere impiegato per l’analisi di comunicazioni intercettate e di altri dati).

Ma come? Anche OpenAI è al servizio dell’esercito statunitense e/o del suo più stretto alleato? E come si concilia l’impiego di ChatGPT in ambito bellico con la missione – contenuta nello statuto originario – di sviluppare un’Intelligenza Artificiale «a beneficio dell’intera umanità»? Come riassume la Mit Tech Review, ancora all’inizio del 2024, le regole interne a OpenAI proibivano l’utilizzo dei propri modelli di Intelligenza Artificiale per «sviluppare armi» o a scopi «militari e di guerriglia». Il 10 gennaio 2024, le restrizioni sono state per la prima volta ammorbidite, permettendo alla società di Sam Altman di collaborare con l’esercito e sviluppare un software destinato alla cybersicurezza per conto del Pentagono.

E poi, lo scorso ottobre, OpenAI ha di nuovo modificato le sue policy sostenendo che, nelle mani giuste, «l’Intelligenza Artificiale può aiutare a proteggere le persone, disincentivare gli avversari e prevenire conflitti futuri». Infine, nel dicembre del 2024, è arrivato l’annuncio per il quale era stato preparato il terreno: OpenAI svilupperà tecnologie impiegate direttamente sul campo di battaglia. In partnership con Anduril, lo sviluppatore di ChatGPT costruirà dei modelli di Intelligenza Artificiale in grado di «sintetizzare rapidamente big data nei casi in cui il tempismo è fondamentale, riducendo il carico di lavoro degli operatori umani e migliorando la percezione del contesto operativo». Non si conoscono i dettagli, ma è probabile che anche in questo caso le capacità dei large language model – al netto dei loro non così rari errori – saranno impiegate per analizzare dati, riassumere report, raccogliere intercettazioni e altre fonti d’intelligence.

Il 16 giugno OpenAI ha inoltre annunciato di aver vinto un appalto da 200 milioni di dollari per sviluppare per conto del Pentagono «prototipi di Intelligenza Artificiale avanzata per affrontare sfide critiche alla sicurezza nazionale, sia nei domini del combattimento sia in quelli strategico-organizzativi». L’ultima Big Tech che si è affrettata a saltare sul ricchissimo carro del Pentagono è Meta, che in partnership con la solita Anduril sta lavorando allo sviluppo dei visori di Realtà Aumentata destinati all’esercito (nome in codice Eagle Eyes – Occhi d’aquila), nell’ambito di un contratto da 22 miliardi di dollari complessivi, al quale, come accennato, Microsoft aveva dovuto rinunciare a causa dello stop alla fabbricazione di Hololens.

Curioso notare come Meta, un paio d’anni dopo aver acquistato Oculus da Palmer Luckey, avesse licenziato quest’ultimo per il suo supporto a Donald Trump durante la campagna elettorale del 2016. Adesso, invece, Luckey e Zuckerberg si fanno fotografare sorridenti mentre progettano visori per soldati americani hi-tech in stile Call of Duty. Un altro chiaro segnale di come sia cambiato il clima politico.

Chiude la nostra rassegna Anthropic, sviluppatore del large language model Claude, che il 5 giugno 2025 ha annunciato il lancio di Claude Gov: una versione del suo modello d’Intelligenza Artificiale progettata specificamente per agenzie militari e d’intelligence degli Stati Uniti. Secondo quanto dichiarato dall’azienda, Claude Gov è già in uso presso le più alte istituzioni della sicurezza nazionale Usa, anche se non è stato precisato da quanto tempo o con quali specifici incarichi.

Rispetto alla versione commerciale, Claude Gov presenta guardrail meno rigidi quando si tratta di elaborare informazioni classificate e offre una maggiore comprensione del linguaggio e del contesto operativo militare. Anthropic sottolinea che i modelli sono stati sottoposti agli stessi test di sicurezza delle versioni pubbliche, ma che sono stati adattati per funzioni come l’analisi delle minacce, l’elaborazione di intelligence e altre applicazioni sensibili. Anche se l’uso diretto per la progettazione di armi resta proibito nelle policy ufficiali dell’azienda, è previsto che queste linee guida possano essere modulate a seconda delle missioni e dell’autorità legale dell’ente governativo coinvolto.

Lo scenario Skynet non si è ancora verificato, ma le intelligenze artificiali sono davvero scese in guerra. Ed era forse inevitabile, considerando i bilanci in profondo rosso di tutte le realtà attive in questo settore e i profitti potenzialmente immensi dei contratti militari statunitensi. Il budget per il 2024 del Dipartimento della Difesa statunitense prevede infatti 315 miliardi di dollari per l’acquisizione di sistemi d’arma (contro i 276 del 2023), di cui circa 40, come spiegato in un recente paper pubblicato da accademici italiani, sono destinati alle tecnologie digitali: 21 miliardi per il cosiddetto C4I (comando, controllo, comunicazioni, computer e intelligence) e altri 18 per la ricerca in Intelligenza Artificiale, tecnologie spaziali, microelettronica, tecnologie quantistiche e altro ancora.

Il mondo tech sta, insomma, diventando il cuore dell’industria bellica e aspira a prendere il posto delle cosiddette aziende “legacy”. Lockheed Martin, Northrop Grumman e gli altri grandi costruttori, che a breve si scontreranno con i rivali tecnologici per conquistare una fetta dell’enorme progetto militare voluto da Donald Trump in persona: il Golden Dome, una riedizione a Stelle e Strisce dello scudo missilistico israeliano (Iron Dome) per il quale è prevista una spesa da 175 miliardi di dollari.

«Apprezzo l’aggressività e lo spirito imprenditoriale che si respira in alcune di queste startup» ha spiegato al Financial Times John Clark, responsabile della tecnologia e dell’innovazione strategica di Lockheed Martin. «Anche noi vorremmo muoverci rapidamente come loro, ma alla fine dei conti dobbiamo assicurarci che queste tecnologie funzionino davvero». Come dire, finché si tratta di data analytics, large language model, droni e visori è un conto, quando invece si parla di missili è meglio affidarsi a chi può garantire esperienza e capacità adeguate.

Riusciranno SpaceX, Palantir, Microsoft e gli altri colossi tech in gara per Golden Dome a strappare una fetta dei ricchissimi contratti ai tradizionali protagonisti della difesa? Difficile a dirsi. Una cosa, però, è certa: le stesse realtà che fino a pochi anni fa promettevano di «connettere il mondo», «non fare del male» e lavorare «a beneficio dell’umanità» oggi non vedono l’ora di scendere in guerra. Da culla del progressismo a cuore pulsante dell’industria bellica: la Silicon Valley ha definitivamente cambiato pelle.

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