
(linkiesta.it, 19 giugno 2025)
Come in ogni tirannia che si rispetti, o aspirante tale, arriva sempre il momento del tradimento dei cantori della rivoluzione. La resa dei conti tra il leader e i suoi più devoti menestrelli, non appena l’ideologia si scontra con il muro della realtà. Nel caso del Trump II, stiamo assistendo allo scontro interno al movimento Maga (Make America Great Again) sul nuovo intervento militare degli Stati Uniti in Medio Oriente.
Una divisione che si sta consumando in modo più meschino e plateale del previsto. L’ultima scena, in ordine temporale, si è consumata nella pillola video pubblicata il 17 giugno sui canali social di Tucker Carlson, ex volto di punta di Fox News, alfiere del trumpismo e oggi imprenditore mediatico indipendente con milioni di seguaci. L’intervistato era Ted Cruz, senatore repubblicano del Texas e strenuo difensore dell’alleanza con Israele. Durante l’incontro, Cruz ha sostenuto che «è nell’interesse dell’America vedere un cambio di regime in Iran».
Carlson, visibilmente scettico, lo ha subito sfidato: «Quante persone vivono in Iran?». Alla risposta imbarazzata («non so il numero esatto»), è seguito l’affondo: «Sei un senatore che vuole rovesciare un governo e non conosce nulla del Paese in questione». E poi: «Non sai nemmeno l’etnia o la composizione religiosa della popolazione iraniana». Quando Cruz ha cercato di replicare parlando di «persiani e sciiti», Carlson ha chiuso la questione: «Non sai nulla dell’Iran». E questo è solo un antipasto dell’intervista in cui Cruz viene smentito e apertamente contestato da Carlson su diverse affermazioni care ai sovranisti americani, tra cui le citazioni bibliche.
Da tempo Carlson sta accusando Donald Trump di aver tradito le promesse del 2016: niente guerre, nessuna “missione civilizzatrice”, solo difesa dell’interesse nazionale ristretto. Una lotta che condivide con una parte consistente della base Maga. Trump, invece, ha scelto una strada più ambigua, ma oggi sempre più chiara. Sostegno pieno a Israele, apertura alla possibilità di un intervento diretto contro l’Iran, minacce esplicite: «IRAN NON PUÒ AVERE UN’ARMA NUCLEARE!» ha scritto su Truth Social, ribadendo una linea che ormai lo avvicina all’establishment neoconservatore che un tempo combatteva.
Lo scontro è diventato personale. Trump ha definito Carlson «kooky», stravagante, e ne ha ridicolizzato l’irrilevanza: «Faccia un suo canale televisivo, se vuole essere ascoltato». Carlson ha replicato su Bannon’s War Room con toni durissimi: «Non mi convincerete mai che il popolo iraniano è mio nemico». E ancora: «Quello che stiamo facendo è orwelliano. Io sono un uomo libero, non mi direte chi devo odiare». Il giornalista ha accusato Trump di «complicità» nell’attacco israeliano del 13 giugno contro siti militari e nucleari in Iran e ha chiesto agli Stati Uniti di «uscire da questa guerra».
Per capire meglio questo conflitto tra le due anime del trumpismo si può guardare il confronto con Steve Bannon, stratega della prima campagna di Trump e teorico dell’America First più radicale, pubblicato da Tucker Carlson sul suo canale YouTube. Durante l’intervista, Carlson ha messo in discussione il paradigma stesso della politica estera trumpiana post-2020, denunciando come l’intervento in Iran sia il risultato di decisioni prese nell’ombra da un’élite che non risponde agli elettori. Ha accusato Trump di essere circondato da «alleati finti» e consiglieri compromessi con il Pentagono e con la Cia. Carlson ha descritto il sostegno alla guerra come «una trappola che ci porterà verso una nuova forma di totalitarismo, in cui chi dissente verrà trattato come nemico dello Stato». Per Carlson, il conflitto con l’Iran non è una questione geopolitica ma un test morale: se Trump non frena adesso, «significa che ha ceduto del tutto all’establishment neocon che un tempo voleva demolire».
Bannon ha condiviso la stessa visione apocalittica, ma con un tono più militante. Secondo lui, l’eventuale guerra con l’Iran segnerebbe «la fine della rivoluzione del 2016» e l’implosione del fronte Maga. Ha spiegato che i tre pilastri del movimento – fine delle guerre infinite, chiusura del confine, sovranismo economico – sono oggi minacciati da forze interne allo stesso partito repubblicano, decise a normalizzare Trump e a usarne la popolarità per tornare al vecchio ordine globale. «Questa è la nostra ultima occasione per smantellare il Deep State», ha spiegato. «Se ci facciamo risucchiare da un’altra guerra in Medio Oriente, il secondo mandato di Trump sarà solo una parodia. Dobbiamo scegliere se governare davvero o essere governati da altri».
Carlson e Bannon si sono anche soffermati sul ruolo crescente dell’apparato di intelligence e del complesso militare-industriale nella politica americana. Il giornalista ha accusato esplicitamente la Cia e il Pentagono di agire come «un potere parallelo», capace di dettare la linea anche a un presidente in carica. «Queste agenzie hanno una loro agenda e non rispondono a nessuno. Sono più potenti di Trump, di Biden, di chiunque», ha detto Carlson. Bannon ha rincarato la dose parlando di «guerra spirituale» in atto a Washington, paragonando l’attuale fase a quella dell’Impero Romano, con una «guardia pretoriana» pronta a sabotare dall’interno qualsiasi tentativo di sovranità nazionale. Secondo entrambi, l’America vive una crisi di regime: un’élite burocratica non eletta sarebbe oggi la vera padrona del Paese.
La ribellione di Carlson e Bannon sta già ottenendo i suoi effetti nella fitta agenda mediatica di Trump. Martedì [17 giugno], nel pieno del ciclone mediatico, è saltata la partecipazione prevista del presidente degli Stati Uniti a un evento mediatico co-ospitato da Newsmax, canale televisivo fortemente sovranista. Un segnale che a noi europei non dice niente, ma per gli americani conta molto. Traduciamo: lo staff del presidente sta cercando di ricalibrare i propri rapporti con l’ecosistema conservatore. Fonti vicine alla Casa Bianca hanno fatto trapelare sui media americani una malcelata irritazione per la crescente influenza dei puri dell’America First, ritenuti «irresponsabili» e «ostacoli alla governabilità». Il messaggio implicito è chiaro: chi mette in discussione la linea della Casa Bianca è fuori dal cerchio magico trumpiano, ormai sempre più stretto dopo il ritiro a vita imprenditoriale di Elon Musk.
In questa guerra dialettica, Carlson ha già ottenuto la vittoria più importante per lui: quella delle entrate pubblicitarie. Il segmento con Ted Cruz ha superato i dodici milioni di visualizzazioni in poche ore su X, mentre la sua newsletter quotidiana ha raggiunto un picco d’iscrizioni mai registrato prima.