Ma Rainey, la madre del blues

di Giulio Pecci (esquire.com, 2 febbraio 2021)

Ma Rainey non può essere regina del blues. È un ruolo che intrinsecamente racchiude una sorta di distanza, un retaggio monarchico fastidioso ed elitario. Ma Rainey è la madre del blues: è allo stesso tempo sua sorella, sua figlia e sua madre. Si a(ni)mano a vicenda, l’uno è l’altro in modo indistinguibile, hanno fatto tutto mano nella mano senza mai dividersi – nel bene e nel male. Ma Rainey’s Black Bottom, film Netflix prodotto tra gli altri da Denzel Washington, narra questo rapporto simbiotico, meraviglioso e drammatico. E va oltre, dipingendo un affresco sorprendentemente accurato e profondo di uno dei passaggi più complessi e importanti della storia afroamericana. Il film, diretto da George C. Wolfe e illuminato dalle meravigliose interpretazioni di Viola Davis (nei panni della Rainey) e del compianto Chadwick Boseman (Levee, irrequieto trombettista dalla band), è tratto dall’omonima opera teatrale del premio Pulitzer August Wilson, considerato il più grande drammaturgo afroamericano della storia.

Netflix
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Il film mantiene una sorta di aderenza alla forma teatrale, tanto nelle scenografie quasi fisse entro cui si muovono i personaggi, tanto nelle interpretazioni, animate da un ritmo musicale e un’intensità da palcoscenico. Una scelta che manifesta grande rispetto verso l’opera originale di Wilson, vincente anche dal punto di vista cinematografico. Gli sforzi della produzione, infatti, si sono concentrati nella riproduzione maniacale dei pochi ambienti e costumi utilizzati. Un risultato grandioso, che arricchisce di molto la narrazione; quest’ultima poi, senza grandi distrazioni dinamiche, è così messa al centro del film. Ogni parola, ogni mimica facciale e movimento hanno la nostra incondizionata attenzione, dall’inizio alla fine.

La vera storia di Ma Rainey parte dal Sud, dalla Georgia. Qui, dai primi anni del Novecento, iniziò a costruirsi un pubblico negli spettacoli di vaudeville e nei minstrel show. La sua presenza scenica ci è tramandata come imponente e soprattutto impenitente, accompagnata da una voce viscerale, umorale quasi all’inverosimile. I minstrel show nacquero come spettacoli parodistici-musicali ai danni degli afroamericani, e sono in qualche modo l’origine della pratica del black-face. La presenza di una cantante afroamericana in spettacoli famosi per caratteristiche del genere può apparire controversa: in realtà gli stessi afroamericani, quasi in contemporanea con la nascita della versione bianca, si appropriarono della forma dello spettacolo per costruire le proprie esibizioni, rivendicando in questo modo la paternità della musica che vi si suonava (interpretandola nel modo corretto) e rovesciando con attenzione l’uso di parodie e stereotipi – dirigendoli sottilmente verso i bianchi.

Il blues è un genere che si è sviluppato in seguito al proclama di emancipazione di Lincoln e della Guerra Civile americana. Un discendente diretto dei canti di lavoro delle piantagioni, anche se decisamente distinto nella forma e nel contenuto. Nasce dalla prima grande rivoluzione nella storia della vita afroamericana, dalla nuova libertà di movimento e di autonomia acquisita; continua per lungo tempo a evolversi attraverso i nuovi cambiamenti, assorbendoli o rigettandoli come un organismo vivo. Nelle parole di LeRoi Jones: il blues era emerso dall’“adattamento da parte del nero all’America, dalla sua scelta di adottare questa nazione”, diventando presto “forse l’espressione più evidente dell’individualità del nero all’interno della sovrastruttura della società americana”. Ciò che animava il blues delle origini era quindi il conflitto di fondo che accompagnava l’avanzata degli ex schiavi negli Stati Uniti, quello che ormai non per scelta era diventato il “loro” Paese.

I black minstrel all’interno dei quali Ma Rainey acquisisce popolarità sono la prima formalizzazione del genere all’interno di uno spettacolo organizzato – concepito per un pubblico più o meno pagante. Ed è proprio Rainey che traghetterà il blues verso la sua prossima evoluzione: quella della registrazione in studio e della distribuzione discografica, della popolarità, delle performance nei teatri e dell’orchestra. È proprio nel contesto di una travagliata sessione di registrazione del 1927 che si sviluppa l’intera trama del film. I ruoli e le gerarchie sociali sono chiari e ben definiti da subito: ci sono i soli personaggi bianchi, il manager della Rainey e l’ingegnere dello studio, detentori dei mezzi di produzione/distribuzione e del potere economico. La band è composta da veri e propri umili operai della musica, caratteristi divertenti, allo stesso tempo soddisfatti e rassegnati. Eccezion fatta per il personaggio di Levee, una scintilla vitale composta interamente di caos e aspettative disilluse, fondamentale nell’arco della narrazione e nella costruzione fin dal principio di una tensione narrativa esasperante. Perfino la composizione della band (pianoforte, contrabbasso, trombone e tromba) è fedele alla realtà storica – la batteria non era ancora strumento definito e imprescindibile, e il sassofono stava solo timidamente emancipandosi dal suo ruolo di strumento d’orchestra europeo.

Ma Rainey domina lo schermo in tutta la sua decadente grandiosità: una donna brutta, eccessiva in tutto, dai connotati fisici al carattere di ferro. Un carisma magnetico, con una voce unica, il solo strumento di potere su cui una donna nera come lei sapeva di poter fare leva – “non gli importa nulla di me, vogliono solo la mia voce”. Nel 1927, infatti, la carriera di Ma Rainey è già nella sua parabola discendente. Anni prima ha firmato un contratto con la Paramount Record, impegnandosi per centinaia di sessioni di registrazione. Il passaggio dagli spettacoli nelle campagne del Sud agli studi di registrazione del Nord segue anche qui in modo naturale l’evoluzione della storia afroamericana. Nello specifico si trattava degli anni della “grande migrazione afroamericana”: il periodo dal 1916 fino agli anni Sessanta almeno, che vide l’emigrazione di milioni di uomini e donne abbandonare gli Stati rurali del Sud per dirigersi verso le industrializzate e (teoricamente) meno razziste città del Nord. Sono anche gli anni in cui nelle case degli americani iniziano a comparire grammofoni e vinili, e nasce quindi la futura industria discografica di massa. Non ci volle molto prima che impresari e manager bianchi intuissero il potenziale mercato della musica afroamericana, instituendo etichette discografiche specializzate, dando il via ai cosiddetti “race records”: musica pensata, registrata per e venduta ai neri. Questi infatti, una volta emancipati, divennero a tutti gli effetti parte della macchina capitalistica, inserendosi nel meccanismo di offerta e richiesta – seppur sul gradino più basso.

Il film, concedendosi a volte una leggera confusione dei piani temporali, riesce in modo eccezionale a sovrapporre la narrazione sociale a quella musicale – due entità che nella storia afroamericana vanno sempre a braccetto. Da una parte è costantemente ricordato il clima di brutale conflitto razziale; dall’altra assistiamo alla guerra civile interna alla musica afroamericana, l’evoluzione del country blues nel futuro swing e jazz. Il personaggio di Levee incarna questa doppia tensione: un ragazzo ambizioso, che ha delle idee musicali innovative, grazie alle quali è convinto di poter migliorare la propria condizione economica e sociale. Disprezza le “jug band” (le band improvvisate tipiche della campagna del Sud degli Stati Uniti), i suoi modelli sono King Oliver e Buddy Bolden: due dei padri del jazz, ovviamente originari di New Orleans. Paradossalmente Ma Rainey sembra essere la principale antagonista di Levee. È assolutamente cieca di fronte alle innovazioni che il trombettista prova a introdurre, vi si oppone con piglio autoritario. La sua è vera e propria paura, incapacità di intraprendere l’ennesimo cambiamento della sua vita. Lei che è stata la prima artista a fare da tramite tra il blues delle campagne e quello cittadino, sembra vivere una crisi d’identità profonda; la nostalgia per il Sud è un elemento costante, accompagnata dall’odio verso il mondo capitalistico del Nord in cui la sua funzione è esclusivamente quella di pedina per far fare soldi ai bianchi, in cui non è padrona di nulla se non della sua voce e della sua musica, che è costretta quindi a difendere in modo paranoico e ottuso.

Lo scarto fra i due personaggi manifesta in parte lo scarto reale che iniziava a emergere all’interno della società afroamericana. Sono gli anni in cui si manifestò la borghesia nera, una nuova classe sociale che provava a usare l’imitazione del modello bianco e gli strumenti capitalistici per cercare un’impossibile integrazione nella società dominante. Il dramma del personaggio di Levee si arricchisce anche di questa sfumatura, diventando poi in senso ancora più universale un martire sacrificato all’altare del sogno americano spezzato. Lavora duro e sicuramente realizzerai i tuoi sogni: un vicolo cieco razziale e neoliberale. Il film non si limita a questo, aggiunge un’ulteriore nota amara all’arco tragico del personaggio, mostrando come l’innovativa musica di Levee sia di fatto rubata dai manager bianchi e fatta eseguire a una formazione bianca. Anche questo un triste leitmotiv della storia musicale afroamericana. Davis e Boseman sono straordinari e non è un’esagerazione affermare che riescano effettivamente a sintetizzare molti dei temi fin qui descritti “solo” attraverso le rispettive, intense interpretazioni.

Potrebbe sembrare che, per essere un film su una cantante, ci sia effettivamente poca musica all’interno dell’ora e mezza abbondante di cui è composta la pellicola. Non è così: il film è letteralmente immerso nella musica, intriso di blues e dei suoi significati più importanti. Un ottimo esempio è stato sottolineato dallo stesso regista: il Sole intenso, che splende attraverso il cielo bianco ricoperto di nuvole, crea un clima torrido ma irreale. Una sospensione temporale carica di stanchezza ed energia che necessita un rilascio. È proprio il blues a incarnare questo rilascio, da sempre. Basti pensare alla sua struttura musicale, il famoso schema dei versi AAB: costruisco la scena, monto la tensione, la sottolineo ripetendomi per due volte e con l’ultimo verso rilascio il tutto. Un po’ il meccanismo di set-up e punchline di uno stand-up comedian. Il blues si manifesta attraverso la biografia drammatica di Levee, la saggezza campagnola dei suoi compagni di band, la fierezza di Ma Rainey; attraverso la gioia più pura e la disperazione più profonda che si scambiano di posto in un battito di ciglia. Il blues sta tutto in ciò che dice la Rainey in una scena, una vera citazione riportata: “Lo sentono uscire, ma non sanno come sia arrivato. Non capiscono che è il modo che ha la vita di esprimersi. Non canti per sentirti meglio. Canti perché è un modo di interpretare la vita”.