Per “The Atlantic” l’era dei social media sta finendo (e non sarebbe mai dovuta iniziare)

di Adalgisa Marrocco (huffingtonpost.it, 14 novembre 2022)

Se Facebook piange, Twitter non ride e la fine dei social media non è mai sembrata tanto vicina (ma potrebbe non essere un male): lo sostiene l’esperto di web Ian Bogost in un lungo approfondimento apparso su The Atlantic. Dopo aver passato in rassegna i recenti tumulti dei colossi del web – dagli 11mila licenziamenti ordinati da Mark Zuckerberg per Meta, fino al malcontento di inserzionisti e utenti dopo l’acquisizione della piattaforma dell’uccellino da parte di Elon Musk – l’autore giunge alla conclusione che «la caduta» dei social potrebbe rappresentare «un’opportunità» per ricalibrare il modo in cui comunichiamo.

Prima della rivoluzione degli smartphone e di Instagram, spiega Bogost, l’obiettivo delle piattaforme era la connessione tra persone, non la pubblicazione di contenuti: LinkedIn rendeva possibile la ricerca di lavoro attraverso una rete di contatti, Friendster faceva lo stesso per le relazioni personali, Facebook permetteva di ritrovare i compagni di liceo. Poi, lentamente e senza clamore, i social hanno smesso di essere “network” e sono diventati “media”. Invece di facilitare la vita off line, i collegamenti si sono trasformati in «una rete globale in cui chiunque può dire qualsiasi cosa a chiunque altro, il più spesso possibile. All’improvviso, miliardi di persone hanno iniziato a considerarsi celebrità, esperti e influencer», scrive Bogost.

Il rapporto tra persone è passato in secondo piano già a partire dalla nascita di Twitter, nel 2006. «Il sito è diventato una gigantesca chat room asincrona. Una “piazza” globale, come l’ha definita Elon Musk, dove il flusso di informazioni, eventi e reazioni è incessante. Anche per questo i giornalisti ne sono diventati così dipendenti», si legge sull’Atlantic. Ben presto, anche gli altri social si sono trasformati in luoghi in cui «le persone potevano diffondere contenuti su vasta scala, ben oltre i loro contatti immediati. Tutti ci siamo trasformati in emittenti. I risultati sono stati disastrosi ma anche estremamente piacevoli, per non dire redditizi: una combinazione catastrofica».

Raggiungere più persone possibili in modo semplice ed economico, raccogliendone i frutti, è diventato un mantra sia per le società tecnologiche sia per gli utenti. Bogost osserva: «Un giornalista vuole guadagnare reputazione su Twitter; una ventenne cerca sponsorizzazioni su Instagram; un dissidente diffonde la notizia della sua causa su YouTube; un autopornografo vende sesso, o la sua immagine, su OnlyFans; un sedicente guru dispensa consigli su LinkedIn. I social media hanno dimostrato che tutti hanno il potenziale per raggiungere un vasto pubblico con bassi costi e alti profitti, e questo ha dato a molte persone l’illusione di meritarsi un pubblico». Questa, sentenzia l’esperto, «è stata un’idea terribile», perché «la gente non è destinata a parlarsi così tanto. Non dovrebbe avere molto da dire, non dovrebbe aspettarsi di essere ascoltata da così tante persone, e non dovrebbe neanche pensare di avere il diritto di commentare» qualsiasi cosa.

Ora che le piattaforme vivono una parabola discendente, si apre uno spiraglio per il cambiamento. Ma, evidenzia l’Atlantic, «rinunciare ai social media potrebbe essere difficile tanto quanto lo è stato smettere di fumare in massa, come hanno fatto gli americani nel ventesimo secolo. L’abbandono di quell’abitudine ha richiesto decenni di interventi normativi, campagne e condanne pubbliche, cambiamenti estetici». Alla fine, insomma, la vita sociale ha soffocato la pratica: «Ora dobbiamo cominciare a fare lo stesso, in maniera seria, coi social media», conclude Bogost.