Djokovic è pronto per la politica

di Stefano Cagelli (linkiesta.it, 20 luglio 2022)

«Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti, un Nole». Nole sarebbe Novak Djokovic, uno dei più grandi tennisti della storia, uno dei più grandi atleti slavi della storia, uno dei più controversi campioni della storia. Quella che abbiamo riadattato è una frase iconica dei tempi della Jugoslavia unita e al posto di “Nole” c’era ovviamente “Tito”, il nome con cui era noto Josip Broz, presidente a vita della Repubblica Socialista Federale. Un’espressione che faceva capire immediatamente come un tale crogiuolo di popoli e culture fosse tenuto insieme quasi esclusivamente dall’adorazione quasi trascendente per il capo e dalle politiche dittatoriali con cui il segretario generale del Partito Comunista jugoslavo soggiogava i suoi “sudditi”. Cosa c’entra tutto questo con Djokovic?

Ph. Alastair Grant / Ap

C’entra. Perché tra le tante sfaccettature che caratterizzano la personalità (straripante) dell’ex numero uno del mondo del tennis (oggi scalato in settima posizione del ranking Atp, non per demeriti suoi, come vedremo più avanti) c’è anche la mai nascosta nostalgia per la Jugoslavia unita. Lui che è serbo, che ha voluto un allenatore croato (Goran Ivanisevic, altra leggenda del tennis), che ha aperto impianti sportivi a suo nome in Bosnia e che ha organizzato – in piena pandemia – un torneo itinerante (il cosiddetto Adria Tour) in tutte le ex repubbliche, salvo poi interromperlo in gran fretta dopo che la tappa di Belgrado si trasformò in un gigantesco focolaio di Covid-19.

Già, perché un altro aspetto centrale per comprendere questo campione, capace di fare in campo cose mai fatte e mai viste prima, è sicuramente il rapporto con il suo corpo e con la scienza. Nole ha una conclamata fissazione per l’alimentazione, vive sotto un regime dietetico ferreo e si nutre esclusivamente di alimenti di origine vegetale. Un’attenzione ossessiva al proprio corpo che l’ha portato a raggiungere una sorta di estasi fisica e che l’ha indotto a fare scelte estreme e spesso controcorrente. La madre di queste scelte – e anche quella che gli ha causato più problemi – è stata la decisione di non assumere il vaccino anti-Covid. Intraprendendo questa strada, Djokovic ha fatto un salto da cui non potrà più tornare indietro. La decisione di non vaccinarsi è stata la causa della sua assenza dal primo torneo stagionale del Grande Slam, l’Australian Open, per partecipare al quale – pur senza vaccino – è incappato in un ban che lo dovrebbe tenere lontano dal Paese per almeno tre anni. Stessa cosa che potrebbe capitare per l’ultimo torneo Major stagionale, gli US Open che si svolgeranno a New York tra la fine di agosto e l’inizio di settembre.

Non sono bastate le sue partecipazioni al Roland Garros (dove ha raggiunto i quarti di finale, eliminato dall’eterno rivale Rafael Nadal) e a Wimbledon (dove ha meritatamente trionfato per la settima volta in carriera) a cancellare le ombre e le polemiche. Volente o nolente, Djokovic è diventato il paladino degli anti-vaccinisti, il simbolo di quella che viene considerata – da chi la pratica – come la simbolica lotta contro le imposizioni della scienza e dei governi e a favore della libertà di scelta. Benché non si sia mai professato no-vax militante, ne è diventato uno dei principali interpreti. Un’eventualità che un uomo della sua intelligenza non può non avere calcolato all’inizio di tutta questa storia. Ed ecco perché il serbo è così amato e così odiato al tempo stesso. C’è chi lo considera un semi-Dio e chi pensa che sia una disgrazia, chi paragona la sua lotta a quella di Muhammad Ali e chi ritiene “non debba ricevere neppure un penny del montepremi di Wimbledon”, chi si schiera per vederlo in campo nonostante i divieti e chi non lo vorrebbe vedere mai più.

Una personalità divisiva e sotto certi aspetti eversiva. Ben voluto da (quasi) tutti i colleghi, di una simpatia straripante fuori dal campo, di una ferocia quasi animalesca dentro il campo. Capace di parlare fluentemente undici lingue (tra cui un sorprendentemente quasi perfetto Italiano) e legato in maniera così viscerale alla sua famiglia e alla sua terra, tanto da avvicinarlo alle più controverse pulsioni nazionalistiche del suo popolo. Un rapporto schizofrenico con il pubblico di tutto il mondo: applaudito, inseguito, ammirato da tutti, ma poi regolarmente avversato dagli spalti, soprattutto quando dall’altra parte della rete ci sono Roger Federer o Rafael Nadal, che con lui hanno diviso quasi vent’anni di successi straordinari, ma che si sono tenuti tutto per loro l’amore incondizionato dei fan.

Novak Djokovic si sente un uomo in missione. Motivo per il quale è arrivato a fondare una nuova associazione di tennisti (la Ptpa) in aperto contrasto con l’Atp, l’organizzazione a capo del circuito professionistico maschile. C’è un filo che tiene insieme tutto, quella pretesa di opporsi a tutto ciò che considera un potere costituito. Quel sentirsi più forte di tutto e di tutti, che si tratti del suo avversario in campo, di un ente regolatore, di un governo o di un’evidenza scientifica. C’è chi è pronto a scommettere che, terminata la sua missione negli stadi di tennis più importanti del mondo, per lui si apriranno le porte della politica, quella vera. E chissà che quanto fatto da giocatore, dentro e fuori il terreno di gioco, non gli abbia già preparato il campo. La sua esclusione dagli Australian Open, d’altronde, aveva provocato una vera e propria crisi di Stato tra Serbia e Australia.

Non è detto che la cosa non possa ripetersi, nel breve periodo – con le prossime decisioni che lo riguarderanno e le polemiche certe che lo coinvolgeranno – ma anche nel medio o lungo periodo, quando, dopo aver appeso la racchetta al chiodo, deciderà cosa fare della sua vita e come spendere il suo immenso patrimonio. Umano, politico ed economico. La sensazione è che sentiremo parlare di Djokovic per molto, molto tempo ancora.