Sanremo, i crimini dello stylistismo e l’abolizione del senso del ridicolo

di Guia Soncini (linkiesta.it, 7 febbraio 2024)

È il Festival più instagrammatico di sempre, molto ma molto di più di quello dell’anno scorso in cui la Ferragni apriva un account ad Amadeus e tutti ci preoccupavamo che facessero pubblicità a Zuckerberg, e infatti poi il tapino è stato multato e lei, beh, non staremo qui a ribadire che la diretta Instagram dal palco di Sanremo, un anno dopo, non è più il principale problema etico nella percezione pubblica di Chiara Ferragni.

Fotogramma / Ipa

È il Festival più instagrammatico di sempre in ogni suo dettaglio. Marco Mengoni che compare coi cartelli spiritosi che cos’è se non @dudewitsign, un tizio che di mestiere quello fa, si fa fotografare coi cartelli spiritosi, e ne ha fatto otto milioni di follower e quindi un reddito. È il Festival più instagrammatico di sempre nella mancanza di memoria a breve, medio, lungo termine, nessuno si ricorda del Sanremo del 2006, o anche solo d’un libro del 2021, e solo con la mancanza di memoria si spiega l’invito a John Travolta – ma su questo poi ci torniamo, mica possiamo liquidare così una meraviglia del genere.

È il Festival più instagrammatico di sempre nella convinzione che tutto quello che succede a noi sia rilevante, tutto quello che ci riguarda sia universale, tutto ciò che ci emoziona sia degno d’attenzione. Ieri ha preso la parola durante la conferenza stampa una giornalista georgiana che si è detta da sola che era «un fatto storico» che per la prima volta a Sanremo ci fosse una giornalista georgiana. Storico specialmente per la sua mamma che l’avrà vista in streaming, immagino.

È il Festival più instagrammatico di sempre nel vittimismo come posizionamento professionale, non ricordo quale delle nuove cantanti (le confondo tutte) sia andata in sala stampa a leggere gli insulti che le sono arrivati sui social (peraltro blandissimi), e nel mio rimosso si agita per venire a galla una qualche valletta (pure loro le confondo tutte) che negli anni scorsi li aveva letti sul palco, e persino Ricky Gervais qualche anno fa ci impostò un mezzo monologo, e insomma ormai se Brocco81 ti dice «al tuo concerto non ci vengo, cessa» è subito repertorio, si vede che scarseggiano gli autori (forse le star di oggi vanno talmente al risparmio che non vogliono pagarli neanche quella miseria che guadagnano oggigiorno gli autori televisivi, relitti d’un capitalismo culturale ormai dismesso).

È il Festival più instagrammatico di sempre nell’ostinazione a usare l’Inglese pur non conoscendolo, ieri Amadeus in conferenza stampa ha detto qualcosa sullo stare o il non stare nella propria «comfrozón» e io mi sono ricordata di quel compagno di scuola che diceva «I don’t know if I mi spieg». È il Festival più instagrammatico di sempre e solo i meme possono distrarre dai vestiti: quando Emma canta «chiamo l’avvocato» io per un attimo mi distraggo dalle considerazioni sulla scomodità di cantare con quegli stivali e mi chiedo se sia una citazione di Luis Sal, «dillo alla mamma, dillo all’avvocato» (questo è uno di quei riferimenti che scadono prima della ricotta: tra un anno mi rileggerò e non saprò di cosa stessi parlando).

È il Festival più instagrammatico di sempre nell’aver sostituito Carrie Fisher con Loredana Bertè. Due tizie pienissime di talento che hanno fatto di tutto per devastarsi la vita, e la cui (compiaciuta, e tematica) devastazione diventa la sfumatura per cui ama ostentare ammirazione il pubblico femminile, che accorre sui social a dire quanto le adora, quanto s’immedesima, quanto Loredana che canta di essersi sempre odiata sono proprio io. E lo scrivono dal telefono su cui tengono la app per le cure ayuverdiche del corpo, e lo scrivono essendo donne la cui idea di trasgressione è saltare una lezione di pilates. Loredana e Carrie, le sciamannate più lodate dalle ragioniere, il quadro che si sfascia in soffitta mentre io bevo Coca Zero in assenza di talento ma coi valori epatici impeccabili.

È il Festival più instagrammatico di sempre nel darsi tutti del tu, essere tutti amici, avere completamente archiviato ogni velleità di critica culturale in favore dell’autoscatto col famoso, del link all’articolo condiviso dal famoso, del riflesso della fama del famoso. In conferenza stampa non c’è uno che non faccia la domanda al conduttore col vocativo «Ama», e io sogno che quello abbia un sussulto di dignità e dica ma Ama a chi, ma chi la conosce, mi dia del lei (non lo farà: il lei, come la punteggiatura, su Instagram è considerato gesto ostile).

Ed è anche il Festival più instagrammatico di sempre nel modulo «fama di riflesso grazie al morto del giorno», che in questo caso non è del giorno ma dell’anniversario. La metà delle domande, in conferenza stampa, sono sul perché non è previsto un ricordo del tal morto che a me era più caro del talaltro morto. Il povero Amadeus a un certo punto ha dovuto dire che non si può fare solo quello. Anche se la dolenza, come su Instagram, coincide sempre col picco d’ascolto. È, soprattutto, il Festival più instagrammatico di sempre nella sequenza di cambi di tono a casaccio degna delle storie social in cui quindici secondi sono «la fame nel mondo», i successivi quindici «comprate il mio lucidalabbra», e poi quindici di «compleanno di mia figlia» e quindici di «emergenza salute mentale».

Quando Dargen D’Amico martedì finisce la sua canzone e dice che non tutti i bambini sono fortunati come sua nipote, e ci sono quelli che muoiono sotto le bombe e cessate il fuoco, il pubblico medio, dodicenne pure (specialmente) se di anni ne ha cinquanta, riesce solo a concentrarsi sulla curva d’appartenenza. «Finalmente», «eroe», e altri entusiasmi per chi sta da una parte; «antisemita» per chi sta dall’altra. Ma non importa il contenuto del messaggio dolente, importa solo che Dargen D’Amico è così figlio di Instagram che, conciato da palco, con gli occhiali a specchio e alcune decine di orsetti di peluche appiccicati sulla giacca e i pantaloni, conciato così gli sembra che il messaggio dolente non sia dissonante. Sì, certo, i crimini dello stylistismo, ma pure l’abolizione del senso del ridicolo, dei toni, dei contesti, pure tutta questa incapacità a vivere fuori da Instagram è un bel problema.

Quando, all’esibizione del mercoledì, Diodato gli dice che è molto contento di presentarlo «specie dopo le belle parole che hai detto ieri sera, che condivido pienamente», è almeno, Diodato, vestito in maniera che non si noti più di tanto. D’Amico ha invece i soliti occhiali a specchio, che, ecco, non aiutano a dare non dico l’idea d’un conferenziere di geopolitica, ma neanche a sembrare Annie Lennox che, adeguatamente dolente e con dietro le immagini in bianchennero, invoca il cessate il fuoco ai Grammy. Per essere la società dell’immagine, siamo veramente scarsi in gestione della stessa.

Ma adesso basta parlare di Instagram, basta parlare del 2024, parliamo invece del 2006, quando John Travolta è ospite al Festival condotto da Giorgio Panariello. La Rai dice che i vecchi Festival non sono su RaiPlay per questione di diritti, ma io credo sia per non farci vedere Travolta che massaggia i piedi a Victoria Cabello, per farci rimuovere ciò che avvenne in onda. Resta traccia del preludio fuori onda. Siamo a Montecarlo, dove alloggiano gli americani ai quali i tre stelle di Sanremo fanno giustamente schifo (non hanno la debolezza europea per il fané), e uno degli autori è lì a concordare gli sketch con l’ospite (allora li chiamavamo: superospiti).

Ricopio da La riunione, libro di Pietro Galeotti pubblicato da Feltrinelli. «L’incontro con la superstar di Hollywood è perfetto: totale sintonia sui contenuti, da navigato fuoriclasse del cinema ha capito il tipo di intervento che gli sto chiedendo per la serata e anzi di suo aggiunge un paio di trovate molto spettacolari e sicuramente efficaci. Non resta che salutarci e darci appuntamento a domani, dunque: mentre gli stringo le mani confermo che il suo passaggio è previsto per l’orario di massimo ascolto, alle 22:30». Sono andata a tirar giù il libro da uno scaffale quando ho visto che, nel 2024, Travolta era previsto in onda alle undici e un quarto. Non mi sono chiesta se avrebbe massaggiato i piedi a Giorgia (o a Fiorello); mi sono fatta domande solo sull’ora, perché Travolta pilota il suo aereo privato, era arrivato con quello a Sanremo nel 2006 e ci è probabilmente arrivato anche questa volta, e io come tutti i lettori sapevo com’era andata diciott’anni prima.

«Lui sorride con un’impercettibile smorfia di sorpresa mista a fastidio e mi comunica che il piano di volo già predisposto per l’indomani (è venuto in Europa pilotando il proprio aereo personale e allo stesso modo tornerà a casa) prevede il decollo dall’aeroporto di Nizza alle 20:30. Cioè circa mezz’ora prima che il programma vada in onda. Fingo disinvoltura e accolgo la notizia come se fosse la cosa più irrilevante di sempre. Dentro di me realizzo che sta per cominciare la più lunga partita a poker della mia vita». Spero che presto qualcuno degli autori del Sanremo 2024 scriva un memoir (qualcuno della metà spiritosa, non di quella specializzata in ospitate dolenti: ai dolenti il picco d’ascolto di questo mondo instagrammizzato, agli spiritosi la letteratura).

Certo, per analizzare i meme sul “Ballo del qua qua” (che altrimenti non capisco come il pubblico giovane che tanto bramano possa conoscere). E per parlare della barba tinta col pennarello del Travolta 2024, del traduttore che quando quello parla di La strada gli fa dire «Giulietta Messina», di John che dice ad Amadeus «You wanna dance with me?» rievocando a noi bambine del Novecento la volta in cui Madonna lo disse al cuginetto abruzzese, e quello rispose «nun saccio balla’». Sì, anche per spiegarci se si siano vergognati di dirgli che Amadeus aveva fatto Grease a teatro. Ma più di tutto, dal memoir dell’autore di turno voglio sapere se anche stavolta Travolta non capiva perché non poteva andare in onda durante il tg, se anche stavolta gli sembrava un ostacolo minore, vabbè registriamo così non decollo in ritardo, se ha detto «ah volete anche voi che rifaccia il balletto con Uma come in tutte le province dell’impero in cui vado a fatturare», se all’autore che ha preso la pagliuzza corta è toccato chiudere in camerino l’americano col decollo prenotato fingendo sia successo per sbaglio, se anche stavolta Sanremo è stato Sanremo.