Super Bowl: ecco perché racconta l’America

di Chiara Pizzimenti (vanityfair.it, 12 febbraio 2023)

Tutti a Glendale, allo University of Phoenix Stadium, in Arizona, per il Super Bowl 2023, edizione numero 57. In campo Philadelphia Eagles e Kansas City Chiefs, ma la partita è solo parte dello spettacolo della finale del campionato professionistico statunitense di football americano che torna nella seconda domenica di febbraio (per l’Italia la notte fra domenica 12 e lunedì 13).

Nfl via Instagram

Quest’anno sarà Rihanna la protagonista dell’Half Time Show, l’intervallo pubblicitario più costoso d’America. In Italia DAZN trasmette in live streaming dalle 23:55 il Super Bowl LVII. Per accompagnare gli appassionati all’evento sportivo più emblematico della cultura a stelle e strisce, Francesco Costa e DAZN hanno creato una nuova puntata della miniserie The American Way. In The American Way – Football & Politics, Costa porta gli spettatori alla scoperta delle finali che hanno segnato la storia della cultura americana, le origini dello sport più amato d’America e i suoi intrecci con la politica. «Un presidente statunitense che dovesse dirsi o mostrarsi disinteressato al football e al Super Bowl sarebbe come un premier italiano che dicesse che la pizza fa schifo a meno di non metterci sopra l’ananas».

L’America vede sé stessa come il football?

«Parliamo di un Paese così gigantesco ed eterogeneo che è difficile ridurlo a una cosa sola, quale che sia. Ma è impossibile trovare qualcosa che unisca tante persone quanto il football, in modo del tutto slegato da etnia, età, genere, classe, cultura. Le finali Nba vengono viste in tv da 14 milioni di persone, e sono grandi numeri. Il successo statunitense della Formula 1 è stato molto raccontato, ma anche il Gran Premio più visto non supera i 2-3 milioni di spettatori. Le persone che ogni anno guardano il Super Bowl in diretta sono oltre 100 milioni: e sono numeri in crescita. C’è sicuramente qualcosa di quintessenzialmente statunitense in questo sport, che comporta contrasti fisici pur essendo sostanzialmente un gioco cerebrale, di organizzazione e strategia; che prevede azioni spettacolari, un alto punteggio, gli americani si addormentano davanti al calcio, ed è aperto a persone di ogni corporatura».

Il Super Bowl non è solo sport: la contaminazione dove nasce? Perché in mezzo c’è uno spettacolo?

«Il Super Bowl è sport, è cultura, è industria, è commercio. L’origine di queste commistioni, che comportano ovviamente un sacco di distorsioni e contraddizioni, è una premessa molto americana e meno scontata di quanto sembri: che tutta questa costosissima baracca può produrre ricavi (nessuno si sognerebbe mai di investire in perdita, come è comune in altri sport) solo se gli interessi del pubblico vengono prima di quelli degli atleti o delle stesse squadre. E il pubblico deve divertirsi, se si vuole monetizzare questo interesse: è il motivo per cui nacquero le cheerleaders, per esempio. Quindi l’esperienza-stadio dev’essere positiva, facile, intensa, sicura, accogliente. Quindi squadre e giocatori svolgono montagne di media activities e impegni fuori dal campo. Quindi gli arbitri durante le partite spiegano ogni decisione allo stadio intero. Quindi proteste e simulazioni dei giocatori non esistono. Eccetera. E quindi, perché non infilare nell’intervallo della partita anche il concerto di una delle più grandi star al mondo? Una o più di una: l’anno scorso suonarono insieme Eminem, Kendrick Lamar, Dr. Dre, Mary J. Blige, 50 Cent, Anderson Paak e Snoop Dogg».

Lo sport ha sempre un lato politico (il consenso che viene dalla popolarità e dall’accostarsi alle vittorie), qual è quello del football?

«Quando un fenomeno umano guadagna l’enorme rilevanza culturale, economica e popolare che ha questo sport, quel fenomeno non può che incrociarsi con i grandi fatti della storia e quindi anche con la politica. Le storie dei presidenti americani e del football americano si sono incrociate tante volte nell’ultimo secolo. È capitato tante volte che una partita di football diventasse esemplare di qualcosa di più grande, il simbolo di un grande momento nazionale o il catalizzatore di tensioni politiche, per esempio: vedi il Super Bowl del 1991 giocato dieci giorni dopo l’inizio della prima guerra del Golfo. Oppure i moltissimi tentativi di Donald Trump di accostare sé stesso a Tom Brady, il più forte quarterback di sempre. I giocatori di football sono forti, carismatici, determinati, si rialzano dopo ogni impatto: i politici ne sono attratti come gli orsi col miele. Non a caso la tradizione vuole che la squadra vincitrice del Super Bowl venga poi accolta e festeggiata con tutti gli onori alla Casa Bianca: i giocatori non lo fanno volentieri, i presidenti non vedono l’ora».

Le differenze sociali e razziali degli Usa sono anche nel football?

«Sicuramente, come in ogni aspetto della società statunitense, o forse di tutte: d’altra parte, quanti sono gli allenatori neri nelle cento squadre di calcio dei cinque maggiori campionati europei? Due. Eppure i calciatori neri non mancano. Nel football americano accade qualcosa di simile: i giocatori non bianchi sono moltissimi, comprese molte delle star più amate e pagate, e a questo Super Bowl si sfideranno per la prima volta due squadre guidate da due quarterback afroamericani. Le cose sono diverse e molto peggiori se si va a vedere chi sono gli allenatori e i general manager delle squadre, che sono ancora quasi esclusivamente bianchi. Anche su questo tema però si vede un approccio tipicamente americano, nel senso che sanno che questi problemi non si risolvono solo con le parole o aspettando che cambino col tempo culture e pregiudizi, ma con regole nuove. Vent’anni fa è stata introdotta la Rooney Rule, che obbliga tutte le squadre a fare colloqui di lavoro anche a candidati afroamericani ogni volta che si libera un incarico. Oggi cinque squadre hanno presidenti afroamericani e sono afroamericani anche sei degli ultimi otto general manager assunti nella Nfl. Sugli allenatori, invece, c’è ancora moltissima strada da fare. Quello che è abissalmente diverso rispetto al contesto europeo è il comportamento dei tifosi allo stadio: un tifoso che dovesse urlare un insulto razzista verrebbe cacciato istantaneamente. Ma devo dire che non ho mai sentito allo stadio un singolo insulto di qualsiasi tipo rivolto contro qualcuno, dai giocatori agli arbitri».

Il presidente guarda il Super Bowl? Lo hanno guardato tutti i presidenti?

«Le vicende della politica e dell’attualità internazionale non sempre permettono ai presidenti di guardare la partita in diretta: difficilmente il presidente George H.W. Bush si prese tre ore libere per guardare il Super Bowl del 1991, per esempio, che si giocò a dieci giorni dall’inizio della prima guerra del Golfo. Ma un presidente statunitense che dovesse dirsi o mostrarsi disinteressato al football e al Super Bowl sarebbe come un premier italiano che dicesse che la pizza fa schifo a meno di non metterci sopra l’ananas».

C’è spazio per le donne nel mondo del football?

«Il pubblico del football, allo stadio e da casa, è composto da donne quasi per la metà, dicono i dati, ed è in gran crescita anche il numero di donne che gioca a football, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa (la nazionale femminile italiana di flag football è arrivata quinta agli ultimi World Games). Quanto al personale della lega e delle squadre, c’è molta più strada da fare: ma anche qui le cose stanno migliorando. Prima del 2020 non era mai accaduto che al Super Bowl arrivasse una squadra che avesse almeno una donna nel coaching staff, il team degli allenatori di ogni squadra: da allora capita ogni anno. In generale le donne nei coaching staff sono sempre di più, mentre quelle che lavorano a vario titolo per le squadre sono quasi la metà del numero totale dei dipendenti. La persona più potente della Nfl – dopo il commissioner, Roger Goodell – secondo molti è Charlotte Jones, vicepresidente esecutiva dei Dallas Cowboys, la squadra sportiva di maggior valore economico al mondo. La più importante manager dei Cleveland Browns è una donna, lo stesso vale per i Denver Broncos; la presidente dei Las Vegas Raiders è una donna afroamericana. La Nfl ha lavorato moltissimo su questo fronte, intuendo innanzitutto le enormi potenzialità economiche di questo allargamento del pubblico e della rappresentatività del gioco».