Il ritorno della kefiah

di Vincenzo Ligresti (ilpost.it, 4 aprile 2024)

Dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas si è rivista anche in Occidente – in giro, nelle manifestazioni, nelle fotografie sui giornali – la kefiah, il copricapo tradizionale utilizzato nel mondo arabo, in cotone e con una fantasia a scacchi, diventata nel tempo simbolo del nazionalismo e della causa palestinese. La kefiah è indossata fuori dalla Palestina almeno dagli anni Sessanta: inizialmente aveva un messaggio politico che si è svuotato nel tempo, fino a diventare un accessorio come un altro proposto da marchi di moda nelle loro collezioni.

Ph. Ron Edmonds / Ap

Ora, però, molti palestinesi stanno chiedendo anche a chi palestinese non è di indossarla a sostegno della loro causa e la kefiah ha assunto nuovamente un significato politico. C’è chi l’ha tirata fuori dagli armadi dove l’aveva riposta anni fa e chi invece l’ha comprata: Nael Alqassis, il gestore di Hirbawi, un’azienda palestinese che si trova in Cisgiordania e che produce kefiah dal 1961, ha raccontato al New York Times che da ottobre gli ordini dall’estero «non hanno eguali nella nostra storia»: soltanto in quel mese furono 18mila.

La kefiah, detta anche keffiyeh, kufiyeh e hatta, è simile ad altri copricapi utilizzati in Medio Oriente, come la shemagh e la ghutra; l’origine del nome non è chiara ma secondo alcuni vorrebbe dire “di Kufa”, la città irachena da cui potrebbe provenire. In origine era utilizzata per proteggersi dal Sole, dal vento e dalle tempeste di sabbia. Wafa Ghnaim, esperta di abbigliamento palestinese e ricercatrice associata al Metropolitan Museum of Art, ha spiegato che fino agli anni Venti gli unici a portare la kefiah erano gli uomini beduini, piegandola in diagonale e fermandola con una specie di corda detta aqal: era anche un modo per distinguersi da chi abitava nei paesini e nelle città, dove si indossava più comunemente un cappello di feltro rosso, il tarbush detto anche fez.

Nel 1936 l’uso e il significato della kefiah cambiarono radicalmente: in quell’anno infatti iniziò la “Grande rivolta araba”, che è considerata dagli storici come un momento spartiacque e l’inizio del conflitto tra arabi ed ebrei in Palestina. Si trattò di un periodo di scontri, violenze e scioperi contro l’occupazione britannica iniziata sedici anni prima, contro il movimento sionista e contro i sempre più numerosi insediamenti ebraici. All’epoca gli scontri avvenivano soprattutto nei villaggi e i ribelli indossavano spesso la kefiah per nascondere il viso, facendola diventare, così, un simbolo della rivolta. A un certo punto i leader della rivolta ordinarono a tutti gli uomini palestinesi di indossarla in segno di solidarietà con i ribelli, in modo che i britannici non potessero distinguere gli uni dagli altri e così anche chi abitava in città o apparteneva a una classe agiata finì per sostituirla al tarbush. Quando i britannici misero fine agli scontri, tre anni dopo, la kefiah era diventata un simbolo di identità nazionale.

All’epoca, comunque, la kefiah non era ancora bianca e nera, come siamo abituati a pensarla ora: come ha raccontato sempre Ghnaim basandosi su ricerche risalenti all’Ottocento, «ho visto spesso una varietà di colori […], il bianco e il nero di oggi, ma anche il verde e a volte fili d’oro e di rosso». Il bianco e nero si affermarono definitivamente negli anni Cinquanta, quando il generale britannico John Glubb, che dal 1936 al 1959 comandò la Legione Araba (cioè l’esercito regolare della Transgiordania), li assegnò ai soldati palestinesi per distinguerli da quelli giordani, che, invece, indossavano kefiah bianche e rosse, come ha scritto lo storico americano Ted Swedenburg nel libro Memories of Revolt: The 1936–1939 Rebellion and the Palestinian National Past. L’origine e il significato dei motivi sulle kefiah, invece, non sono noti ma secondo alcuni simboleggiano aspetti della vita in Palestina: le strisce nere sui bordi rappresentano le antiche rotte commerciali nel territorio, il disegno a rete il legame con il Mar Mediterraneo, mentre le linee curve ricordano gli ulivi, un simbolo di resistenza.

Dalla fine degli anni Sessanta, la kefiah iniziò a essere utilizzata anche dalle donne, soprattutto dopo che Leila Khaled – militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) che, nel 1969, dirottò un aereo di linea americano – venne fotografata mentre ne indossava una tenendo in mano un fucile AK-47. Come spiega la storica Anu Lingala in A Sociopolitical History of the Keffiyeh, la fotografia fece diventare la kefiah un «accessorio senza genere» e spinse «centinaia di giovani donne arrabbiate in tutto il mondo» a indossarla come sciarpa, ma contemporaneamente spinse molti Paesi occidentali ad associarla al terrorismo.

La kefiah acquistò una popolarità internazionale soprattutto grazie a Yasser Arafat, che dal 1969 al 2004 fu il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), dapprima un gruppo armato e poi un movimento politico che aveva come obiettivo l’emancipazione del popolo palestinese. Arafat infatti la indossava sempre e così la kefiah comparve su tutti i giornali e le televisioni del mondo, compresa la storica foto scattata insieme all’allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e al presidente degli Stati Uniti Bill Clinton nel cortile della Casa Bianca, durante la firma degli storici accordi di Oslo nel 1995. Arafat venne fotografato anche con moltissimi politici italiani, contribuendo a far conoscere la kefiah in Italia: tra loro anche Giulio Andreotti, leader della Democrazia Cristiana e più volte primo ministro, nel 1988 fotografato con una kefiah bianca a Palmira, in Siria. Tra gli altri capi di Stato e di governo che indossarono pubblicamente la kefiah ci furono l’ex presidente e rivoluzionario cubano Fidel Castro e l’ex presidente e attivista sudafricano Nelson Mandela, il cui partito in difesa dei diritti della popolazione sudafricana nera era vicino all’Olp.

«I primi occidentali che indossarono la kefiah furono perlopiù attivisti contro la guerra della fine degli anni Sessanta», spiega sempre la storica Lingala; qui, però, la kefiah assunse presto nuovi significati. Il Guardian racconta che inizialmente venne indossata dagli esponenti di movimenti controculturali, come quello del Sessantotto, che contestava la rigidità delle istituzioni e i valori tradizionali, sessuofobi e patriarcali della società occidentale, mentre tra gli anni Settanta e Ottanta divenne un simbolo di pacifismo e anti-autoritarismo. In tal senso venne usata provocatoriamente da artisti come Madonna, fotografata nel 1982 mentre ne indossava una. In Italia, invece, la kefiah venne etichettata come un indumento da “centro sociale”, di sinistra, acquisendo un’ulteriore connotazione.

Nel 1988 la rivista Time raccontò che negli Stati Uniti la kefiah aveva perso parte del suo significato politico: mentre in tv la si vedeva indossata negli scontri della prima Intifada (una sollevazione in massa della popolazione palestinese contro l’occupazione israeliana dal 1987 al 1993), negli Stati Uniti la mettevano ragazzini che non ne conoscevano nemmeno il nome. L’articolo raccontava che era in vendita in tutti i negozi ambulanti della Costa orientale: «indossa il grande quadrato di cotone a quadri […] e il tuo look sarà quello del perfetto street style americano del 1988». L’articolo riportava anche un sondaggio molto informale fatto fermando a caso le persone a Chicago che la indossavano: era venuto fuori che soltanto una su tre la indossava con un intento politico. All’epoca persino il capo della Organizzazione in difesa degli ebrei di New York, Mordechai Levy, commentò che «ce ne sono così tante che è solo una sciarpa come un’altra».

Per alcuni la kefiah era diventata un semplice accessorio alla moda e alcune aziende di moda la introdussero nelle loro collezioni. Tra i primi ci fu lo stilista belga Raf Simons che nel 2001 inserì la kefiah nella collezione per l’autunno/inverno 2001/2002 del suo marchio omonimo: era intitolata “Riot Riot Riot” (Rivolta Rivolta Rivolta) e i critici di moda la definirono “terrorist chic”. Lo stilista franco-belga Nicolas Ghesquière la ripropose per l’azienda spagnola Balenciaga nella collezione autunno/inverno del 2007/08, chiamata “Traveller”, convincendo la rivista di moda statunitense W Magazine a inserirla tra i dieci accessori della stagione. Pochi mesi dopo, Isabel Marant, stilista francese direttrice dell’omonima azienda, la affiancò a vestiti in verde militare e color kaki per la collezione primavera/estate 2008.

Oltre che dalle aziende di moda, le kefiah iniziarono a essere prodotte in massa a basso costo dalla Cina e si diffusero in Europa e negli Stati Uniti in imitazioni dai colori sgargianti. Vennero vendute anche da marchi di moda più accessibili come la statunitense Urban Outfitters, che, sempre nel 2007, la propose come una sciarpa “contro la guerra” e la ritirò dopo alcune proteste, tra cui quella di Stand With Us, un’organizzazione filo-israeliana che inviò agli azionisti della società fotografie di combattenti di Hamas che indossavano la kefiah.

Nello stesso anno, il New York Times pubblicò un articolo intitolato Dove alcuni vedono la moda, altri vedono la politica, in cui riassumeva il dibattito dell’epoca sull’utilizzo della kefiah, spiegando che negli Stati Uniti aveva preso il posto delle magliette di Che Guevara, svuotate di ogni significato di lotta politica e diventate simbolo della cultura pop; in particolare, era molto diffusa tra gli hipster, sottocultura di giovani bohémien del ceto medio. Nello stesso periodo in Italia non era inusuale vedere ragazzi appartenenti ad altre sottoculture con indosso una kefiah, per esempio alle Colonne di San Lorenzo a Milano o a Piazza del Popolo a Roma.

In quegli anni vennero visti con una kefiah anche attori come Colin Farrell, Cameron Diaz e Kirsten Dunst, oltre a Sarah Jessica Parker nei panni di Carrie Bradshaw nella quarta stagione della serie tv Sex and the City, andata in onda nel 2002; più di recente, nel 2014, la cantante Rihanna twittò la famosa foto dell’abbraccio tra un bambino che indossava la kefiah e uno che indossava la kippah (il copricapo rituale usato dagli ebrei nei luoghi di culto). In generale, è difficile capire il grado di consapevolezza con cui la indossarono; ma è, invece, certa l’intenzione di alcune celebrità che l’hanno indossata recentemente in solidarietà ai civili di Gaza. Tra loro Zayn Malik, il cantante ed ex membro dei One Direction, e la modella di origini palestinesi Gigi Hadid, che ha anche detto che «condannare il governo di Israele non è antisemita così come sostenere la Palestina non è sostenere Hamas».

Oggi, poi, sarà più difficile per le aziende sfruttare la recente popolarità delle kefiah, un po’ perché ha un messaggio molto connotato, un po’ perché nel mondo della moda si è sviluppato un importante dibattito sulla cosiddetta appropriazione culturale, ovvero la pratica di prendere senza le dovute accortezze usi e costumi da un’altra cultura, e alcuni marchi sono stati accusati di sminuire il simbolismo della kefiah. Per esempio, nel 2019 il marchio di lusso Cecilie Copenhagen venne criticato dallo stilista palestinese Omar Joseph Nasser-Khoury per utilizzare le stampe tradizionali delle kefiah in modo “irrispettoso”; ricevette centinaia di lettere di protesta e si scusò.

Una polemica simile toccò nel 2021 al marchio francese Louis Vuitton perché il suo direttore creativo Virgil Abloh aveva realizzato una sciarpa in azzurro che ricordava una kefiah, al costo di 705 dollari. Il profilo Instagram Diet Prada, noto per segnalare plagi e scorrettezze nel mondo della moda, scrisse: «Quindi la posizione di Lvmh [il gruppo del lusso francese che possiede Louis Vuitton e altri grandi marchi di moda, N.d.R.] sulla politica è “neutrale”, ma sta producendo una kefiah da 705 dollari con il loro logo»; Louis Vuitton ritirò la sua versione della kefiah.

Oggi, invece, alcune aziende di moda hanno proposto la kefiah nel suo significato sociale e politico. Per esempio il marchio berlinese Gmbh ha chiuso l’ultima settimana della moda maschile di Parigi di fine gennaio con kefiah e giacche dalle stampe tradizionali, presentandole come «il modo più semplice per mostrare solidarietà ai palestinesi e alla loro lotta decennale per la liberazione». All’ultima settimana della moda di Milano, che si è tenuta lo scorso febbraio, anche lo stilista Salvatore Vignola ha presentato una collezione in solidarietà alla Palestina: era intitolata “If I Must Die” ed era ispirata alla poesia del palestinese Refaat Alareer, ucciso a Gaza il 7 dicembre scorso; i ricavi delle vendite sono andati alla Mezzaluna Rossa, l’equivalente della Croce Rossa nel mondo arabo. Come ha detto al Guardian Jane Tynan, storica culturale alla Vrije Universiteit Amsterdam, oggi la kefiah è «indubbiamente intesa come un simbolo a sostegno della causa palestinese» con «aspirazioni più ampie in materia di giustizia sociale e decolonizzazione».