Fare politica senza i like: comunicare come Draghi

di Nicola Bonaccini (huffingtonpost.it, 3 maggio 2021)

Vicini al traguardo dei 100 giorni, che spesso identificano il carattere di un esecutivo, e dopo un anno di pandemia in cui ci è apparso chiaro che “nulla sarà più come prima”, viene da chiedersi se anche la comunicazione politica ovvero i modi, gli stili e le tattiche dei nostri uomini e donne di Stato, dovrà cambiare per mantenere il contatto con le persone. Dal 13 febbraio, giorno dell’arrivo del “governo dei Migliori”, fiumi di inchiostro analogico e digitale sono scorsi per analizzare, e a volte riempire, quel silenzio così anomalo del premier Mario Draghi. Chi ingenuamente gli consigliava di scendere nell’agone mediatico “altrimenti qualcun altro colmerà il vuoto” e chi invece attribuiva significati a quell’assenza di parole definendolo addirittura, per citare Mario Ajello su Il Messaggero, silenzio eloquente.

Ph. Paolo Giandotti
Ph. Paolo Giandotti

Per orientarci serve, innanzitutto, riequilibrare il ruolo della comunicazione togliendole il primato strategico e riportandola al suo vero compito: quello di strumento tattico. Se la comunicazione viene prima della politica o si sviluppa in modo clichettaro, crea solo mode momentanee e personaggi in commedia che, tra l’altro, non tutti possono permettersi di interpretare. A distanza di tempo, è ormai evidente che quei consigli che lo spin doctor del primo Obama diede a Mario Monti, quando si apprestava a fondare Scelta Civica, ovvero di diventare quello che, apparentemente, non era mai stato nei suoi primi settant’anni di vita e di carriera, determinarono il flop del progetto. Poiché il leader arruffapopoli del nuovo millennio deve essere percepito come empatico, si decise di “umanizzarlo” e quindi, via il Loden e largo alle chiacchierate nel talk con “birretta” della Bignardi. Andò molto male.

È facile dirimere la questione fra comunicativisti e silenzisti, se ci si concentra sul comprendere la strategia dietro le tattiche. Ha indubbiamente ragione Claudio Velardi quando ricorda che “veniamo da anni di escalation comunicativa: da Berlusconi a Renzi, fino all’apoteosi casalinian-contiana” dove la comunicazione ha spesso sorpassato la politica rendendo addirittura protagonisti i portavoce, a volte a scapito dei loro leader. Rocco Casalino, portavoce di Giuseppe Conte, aveva un compito diverso rispetto a quello di Paola Ansuini, attuale capo ufficio stampa di Palazzo Chigi. L’ex gieffino doveva costruire l’immagine di un uomo politico che fino al 20 agosto del 2019, giorno dello storico discorso in Senato e della fine del primo governo della XVIII legislatura, era considerato un vaso di coccio fra quei due vasi di ferro dei suoi vice. L’“avvocato del popolo” doveva diventare leader di un popolo allora non precisato e che oggi è il Movimento 5 Stelle.

Possiamo affermare o dedurre che l’obiettivo dell’ex-banchiere centrale sia lo stesso? Se, per esempio, fosse quello di salire sul colle più alto di Roma, la cui ascesa necessita di un largo consenso parlamentare, magari proprio lo stesso che sta sostenendo il suo governo, avrebbe senso esporsi, dividere, trattare? I focus ce li dice la rassegna stampa che ogni mattina varca il salottino giallo di Chigi verso lo studio del presidente: molto corposa, a base di politica interna e retroscena quella di Conte, molto più snella e focalizzata su economia e politica internazionale quella di oggi. La forza di Draghi sta proprio nell’essere quello che è, e speriamo che la tentazione di reagire frontalmente a questa o quella provocazione malpancista non lo convinca a cambiar strada. A vedere la prima conferenza stampa del suo governo, quella con Gelmini, Speranza e i protagonisti del Cts, qualcuno potrebbe pensare a uno stretto ritorno del metodo base della comunicazione istituzionale: si parla solo quando si ha qualcosa da dire e non da promettere. Altra illusione. Quando comunichi alla moltitudine dei cittadini, quando sei nell’ambito della comunicazione pubblica, ci sei con tutti e tre i suoi aspetti insieme: istituzionale, sociale ma anche politico, generando inevitabilmente reazioni e aspettative.

Fai comunicazione politica non solo quando ti colleghi in diretta Facebook ma anche, forse soprattutto, quando detti l’agenda, quando le tue parole trasformano il resto in rumore di sottofondo. Solo così possiamo capire il significato della richiesta perentoria di bloccare l’export fuori continente delle dosi di AstraZeneca, della militarizzazione della campagna vaccinale, della presa di posizione contro quei dittatori con cui serve tuttavia cooperare, finanche della predica ai salta-fila dei vaccini. La politica e il suo aspetto comunicativo ci sono ma a un livello diverso, spesso sovraordinato, per cui alle consuete polemiche sul significato del 25 aprile si risponde, con tono quirinalizio, elogiando i valori repubblicani, o alla consueta sobrietà diplomatica si contrappone la schiettezza del “i dittatori, chiamiamoli per quel che sono”. Il cambio di premiership sta segnando una novità più che dal punto di vista della comunicazione, che ha semmai ritrovato la sua anima istituzionale, finita in un cassetto da qualche lustro, nello scenario politico che sembra andare verso il tramonto del populismo a vantaggio del ritorno dell’elitismo.

In un recente incontro virtuale con gli studenti dell’Università di Padova, alla domanda sugli effetti politici della pandemia, mi è capitato di ripercorrere le caratteristiche degli esponenti di partito e di governo delle cosiddette nostre tre repubbliche. I primi avevano una carriera condizionata dalla presenza delle scuole di partito, dalla selezione sul campo e soprattutto dal peso dei voti. L’onorevole era il bacino elettorale che rappresentava. Poi la mediatizzazione della politica, che ha portato, in pochi decenni, dalla territorialità al casting, per cui il seggio non si pesa coi numeri elettorali ma con la notorietà e con la vicinanza al centro di potere. Da ultime, la virtualizzazione della propaganda e della selezione hanno portato a una classe dirigente non più guidata da princìpi identitari e non negoziabili ma ad un’iconoclastia che, a quanto pare, non riesce a passare dalla protesta alla proposta ma semmai alla trattativa, purché si governi. Il tetris politico degli ultimi tre esecutivi ne è ampia conferma.

In quest’ultimo scenario, il nemico nella protesta diventa poi l’amico nella proposta. Mario Draghi era il simbolo del male a cui venivano indirizzati parte degli improperi dai palchi del Vaffa o dalle sagre della Bassa e oggi è il protettore dello spread, l’ecologista convinto, il garante del Pnrr e il primo difensore dell’indispensabile Europa. La pandemia ha probabilmente rimesso al centro il valore dell’elitismo con l’ascensore, quel principio secondo il quale faccio quello che mi dice lo scienziato arcinoto per le sue pubblicazioni e non seguo le magie dello stregone. Lo stesso principio secondo il quale è più strategico mandare alle trattative chi ha il curriculum alla “whatever it takes”.

Cosa c’è da imparare e di cui approfittare? Un recente sondaggio dell’Istituto Piepoli mostra come, da febbraio a oggi, premino solo la coerenza e le scelte nette. Il consenso non è frutto delle frasi ad effetto ma della chiarezza e della congruenza dei messaggi, e quindi, per definizione, di un percorso medio-lungo e non estemporaneo. Che fare allora, per rispondere alla domanda iniziale?

  1. Avere una visione, di parte. “Non si può scrivere un romanzo politico senza un indice e senza partire dalla conclusione. Allo stesso tempo non si può fare politica solo con la comunicazione” dicevamo in un precedente articolo. La politica del “purché si governi” somiglia agli opportunismi della Prima Repubblica e sappiamo com’è andata.
  2. Mettere prima la politica e poi la comunicazione. Vince chi si posiziona in modo chiaro e offre alle persone idee non negoziabili e non sacrificabili sull’altare delle poltrone. Prima la strategia e poi la tattica, non viceversa. Prima pensiamo a cosa dire, a chi dirlo, con quale orizzonte e solo dopo, di conseguenza, il titolo strappalike e non viceversa.
  3. Aggiungere il “come” e il “quando” al “cosa”. La classica annuncite, in un contesto ormai stremato dalle paure per i contagi e dalle incertezze per il futuro, non solo non funziona ma è controproducente. Serve un Pnrr anche alla politica, che oggi ha bisogno, più che mai, di motivare ma allo stesso tempo di staccarsi da certe promesse vuote. Serve dare un orizzonte misurabile.

Probabilmente, i politici post-pandemia dovranno essere più visionari per immaginare nuovi futuri, più competenti per realizzarli e più strategici per riuscirci. Nos eligere optimus.