L’Italia, Salvini e i migranti: intervista a Richard Gere

di Alberto Moreno (vanityfair.it, 16 aprile 2024)

Connecticut, 20 marzo 2024. Richard Gere si collega al meeting su Zoom esattamente tre settimane dopo essersi fatto fotografare a New York con la moglie, la spagnola Alejandra Gere, già Alejandra Silva, dalla quale ha avuto due figli e con la quale intende trasferirsi a Madrid il prossimo autunno. «Le racconto una storia», mi dice.

Ph. Luigi & Iango

«Quando abbiamo iniziato a frequentarci e lei è venuta a trovarmi in campagna, vicino a New York, a un certo punto le ho detto che mi sarei seduto a meditare, come facevo tutti i giorni, ma che lei poteva scendere al lago con me e sedersi a pensare, leggere o quello che le pareva; e quando ho finito il mio esercizio, mi ha detto: “Ok, puoi dirmi cosa stavi facendo?”. E mi sono reso conto che nessuno me l’aveva mai chiesto prima. Lei voleva saperlo davvero, così ho iniziato a spiegarle la mia routine e alcune delle cose su cui, in tutti questi anni, sono riuscito a lavorare con la mente nel tentativo di cambiarle. Si è presto resa conto che il buddismo era qualcosa che toccava anche lei in profondità».

La loro è una storia di amore devoto. Dopo i primi due matrimoni di lui con la modella Cindy Crawford e l’attrice Carey Lowell, madre di suo figlio Homer, e il matrimonio di lei con il padre del figlio Albert, la coppia ha avuto due figli, Alexander, cinque anni, e James, quattro. Senza Alejandra, con la quale condivide attivismo e interessi, non si comprendono gli ultimi dieci anni di vita (privata e professionale) di Gere. Quando i due parlano, di solito lo fanno nominando l’altro. La scintilla è scoccata durante un incontro in Italia, a Positano, nel 2014. Lui soggiornava a Villa Treville, un hotel di cui lei era proprietaria, e lì è nato l’amore. «Quando mi ha incontrato credo che non sapesse chi ero», spiega il protagonista di Ufficiale e gentiluomo, Pretty Woman e The Jackal. Un’affermazione alla quale si fa un po’ di fatica a credere.

La vita dei Gere è stata a New York da quando si sono sposati. A questi sei anni, vanno aggiunti i venti da che l’attore ha smesso di frequentare Hollywood. «Quando sento la parola Hollywood, la prima cosa che penso è che si tratta di qualcosa che mi è estraneo. Non vivo in California da un quarto di secolo, né in tutto questo tempo ho mai girato un film a Los Angeles. Lavoro in produzioni molto indipendenti, e ho un figlio che oggi ha ventiquattro anni da cui non volevo allontanarmi. Ho ancora molti amici nel settore, ma la mia cerchia più stretta è formata dalle persone che sono vicine a me». Tra queste, lo scrittore e giornalista Jonathan Cott e il regista statunitense di origine israeliana Oren Moverman, con cui ha lavorato a diversi progetti, tra cui quello di cui parla con maggiore affetto, Time Out of Mind (Gli invisibili, in Italiano). «C’era qualcosa di ipnotico nel modo in cui Oren ha diretto quella pellicola, che mi è rimasto nel cuore per sempre. E anche se è un film difficile, ne sono molto orgoglioso».

Gli invisibili è incentrato sulla vita di George Hammond, un uomo che dopo un periodo sfortunato si trova costretto ad alloggiare in un rifugio per persone senza fissa dimora. Inizia così una vita da senzatetto a New York e diventa invisibile per la società, come suggerisce la traduzione italiana del titolo del film. «Quando l’ho fatto, per me era importante perché lavoravo con un’associazione di New York chiamata Coalition for the Homeless. È stato proprio il periodo in cui ho incontrato Alejandra, che a sua volta è rimasta molto scossa dalla storia e mi ha chiesto se potevo fare qualcosa con lei in Spagna». L’attore le ha proposto di fare qualche ricerca e poi di dirgli se aveva trovato le persone giuste per portare il film nel suo Paese.

«Ha lavorato davvero sodo, ha parlato con molte organizzazioni governative, non governative e anche religiose, e alla fine mi ha parlato di Hogar Sí, che all’epoca si chiamava diversamente. Il loro approccio alla condizione delle persone senza fissa dimora era efficace e molto professionale, dovevo sostenerlo». In seguito Gere si è recato a Madrid per incontrarli e Alejandra glieli ha presentati. «Si battevano per procurare un lavoro ai senzatetto, in modo da dare loro una speranza, una chiave per restituire loro la coscienza di essere esseri umani indipendenti. Così abbiamo iniziato a collaborare assiduamente con loro, e Alejandra è stata fondamentale per far approdare l’idea in Spagna. Poi abbiamo finito per fare cose anche in altri Paesi come l’Italia». Marian Juste Picón, la presidente della ong, definisce Gere «una persona che conosce e si prende a cuore i problemi dell’umanità».

Quando gli cito questa frase della sua socia, lui minimizza: «Come sa, io sono buddista e i miei insegnanti buddisti sono straordinari. C’è un elemento molto importante della nostra religione che si chiama “saggezza eguagliatrice”. Esiste (ed è molto diffusa) l’errata convinzione secondo cui chi ci sta vicino è importante, mentre chi ci sta lontano non lo è; ed è un’assurdità. È una distorsione pericolosa che subiamo, perché, inoltre, l’uguaglianza dovrebbe equipararci anche agli animali e agli spiriti invisibili. Siamo tutti uguali nel nostro desiderio di felicità. E più riusciremo a ritenerci uguali in tal senso, ad amarci e prenderci cura di tutti gli esseri, meglio sarà non solo per noi, ma per l’intero universo». «Ci siamo dentro tutti insieme» è una frase che l’attore e produttore ripeterà almeno tre volte nel corso della nostra intervista, per la quale mi ha chiesto di prediligere il suo lato attivista e socialmente impegnato piuttosto che quello professionale, che minimizza il più possibile e considera al massimo un vettore da quando, nel 2014, ha unito le forze creative con Moverman.

Guarda film ultimamente?

«A dire il vero non usciamo molto. Abbiamo tre figli piccoli. Uno di undici anni, uno di cinque e uno di quattro. Quindi verso le nove e mezza di sera dormiamo tutti, e se guardiamo qualcosa è sulla grande tv che abbiamo a casa».

Rivede mai i suoi lavori?

«No, mai. Una volta finito il film, non lo guardo più. Vedermi sullo schermo non mi piace molto, mi imbarazza».

Ma è aggiornato sulle uscite? Le mandano i link ai nuovi lavori dei suoi amici o usate solo le piattaforme di streaming?

«Beh, riceviamo gli screener dell’Academy sull’app, quindi passiamo in rassegna i film importanti in questo modo».

Non li guarda nemmeno con Alejandra o con Homer?

«No, nessuno dei due ha visto molti dei miei film. Anzi, penso che quando ci siamo conosciuti lei non sapesse chi ero».

Quindi suo figlio non ha idea di che tipo di star lei sia?

«Non ci pensa. E poi trova molto difficile vedermi sullo schermo perché, anche se interpreto un personaggio estremo, sono sempre suo padre e fa fatica a immedesimarsi nella storia. Si dà il caso che abbia appena iniziato a recitare anche lui. Gli è venuto l’interesse tutto a un tratto, e sembra che gli piaccia. Ora si è messo a scrivere e dirigere piccoli film».

Ha anche talento per la musica come lei? (Gere suona diversi strumenti e ha iniziato a farsi notare come musicista prima di dedicarsi alla recitazione, N.d.R.)

«Sì! E anche questo è venuto da lui. Una delle regole di casa mia è che devi scegliere uno strumento e imparare a suonarlo, così da piccolo ha iniziato il pianoforte. L’ha fatto per due anni e poi ha smesso, ma io ho continuato a ripetergli che doveva sceglierne uno e lui è passato alla batteria, anche quella è durata poco. Un paio d’anni fa, però, ha iniziato a suonare con la sua band all’università e adesso fa il cantante in un gruppo punk».

Il servizio con i fotografi Luigi e Iango, che vivono negli Stati Uniti, è stato uno dei pochi cui l’attore si è prestato negli ultimi anni, ma si è «divertito», confessa. «La nostra esperienza con loro è stata ottima. Lavorano nel loro pied-à-terre e hanno una magnifica energia», mi dice Alejandra, sempre su Zoom, una settimana dopo la mia intervista con Gere. E aggiunge: «Li vedevi alternarsi per fare foto, entrare e uscire. “Dove vanno, cosa fanno?”, ci chiedevamo. Solo alla fine, dopo essere stati con loro quattro ore, ci hanno detto che avevano cucinato per noi a turno e apparecchiato la tavola. C’era anche il loro cane, che è splendido, e aveva il posto come un ospite, fa parte della famiglia. Io all’inizio non capivo niente, perché non mi avevano detto che saremmo andati in una casa. Quando sono arrivata, un po’ più tardi di Richard, ero disorientata, e tutto a un tratto ho visto mio marito con un cappello a tesa larghissima e un cappotto con il bavero alzato da detective. Inoltre, qualcuno aveva messo la sigla di Succession, tutto molto buffo. La verità è che non avevo mai visto Richard tanto a suo agio e tanto sciolto in un servizio fotografico da quando lo conosco».

Uno dei migliori amici di Gere era il fotografo Herb Ritts, morto di Aids nel 2002, mi spiega Alejandra. «Era un gigante della moda. Richard è molto umile e non lo racconta mai, ma Herb ha iniziato a emergere davvero quando l’ha ritratto, in particolare in una stazione di servizio, con una sigaretta in bocca, in piedi con le mani intrecciate dietro la nuca e una macchina alle spalle. Una foto che mi sembra super sexy. Forse non super raffinata, ma sexy. Quando abbiamo lasciato il set, Richard mi ha confessato la grande intesa che aveva sentito con Luigi e Iango, e che non aveva mai trovato fotografi con cui si sentisse tanto a suo agio da quando è morto il suo amico. In altre occasioni, quando sono venuti a fotografare me, lo vedevo contentissimo, seduto su una sedia. “Facciamone una insieme”, gli chiedevo e lui ripeteva: “No, no, andate avanti solo con lei, è spettacolare”. Questa volta ci siamo divertiti».

Pur essendo stato un’icona di stile negli anni Ottanta, con i suoi indimenticabili look Armani in American Gigolò, Gere non sembra molto interessato ai vestiti. «Non ho il minimo rapporto con la moda», mi confessa quando glielo chiedo. «Non l’ho mai avuto e non mi interessa. Questo non significa che non possa apprezzare un bel tessuto o un maglione, naturalmente. Ne ho uno in cashmere, una maglietta, jeans e pantaloni della tuta, niente di speciale… ma non ho alcun senso della moda. Ai fotografi ho detto che avrei provato qualunque cosa mi avessero proposto, ma fino a un certo punto. “Se penso che sia completamente ridicolo, non lo farò”, li ho avvertiti, ma loro volevano giocare. Abbiamo provato un po’ di cose diverse, anche se io preferisco sempre che i vestiti siano invisibili».

Sua moglie conferma: «La sua moda sono io. Gli compro i vestiti, perché è vero che non gli interessano. Ci resta sempre in mente il personaggio che proietta nei suoi film, così elegante. Non è che sia proprio l’opposto, ma è vero che predilige la comodità ed effettivamente gli serve parecchio aiuto per riempire il guardaroba. Quando si tratta di fare shopping per lui è un po’ un tira e molla, anche se si diverte ancora a uscire per comprare cose per me o dire la sua quando andiamo a un evento. E poi ci sono volte in cui gli piacciono i vestiti dei film che fa, cose di Armani, Brioni, Loro Piana… Tiene sempre qualcosa per ricordo».

Prima di parlare con la coppia, ho avuto modo di chiedere un parere su Gere a diverse persone che hanno lavorato con lui in tutti questi anni in qualità di attivista. Persone come la presidente della Campagna internazionale per il Tibet, Tencho Gyatso, che sottolinea «il suo lavoro fondamentale per elevare il profilo dell’organizzazione e il suo enorme contributo alla nostra missione di preservare la cultura tibetana»; o Laura Lanuza, portavoce del gruppo umanitario Open Arms, che lavora gomito a gomito con il suo fondatore Òscar Camps.

Sentendo il suo nome, Gere mi interrompe: «Se ha provato a parlare con Òscar, si sarà reso conto che in questi giorni è impegnato ad aiutare a Gaza. L’altro ieri ho parlato con loro del lavoro incredibile che stanno facendo per portare cibo nella zona di conflitto insieme allo chef José Andrés, che è anche amico mio (due settimane dopo la nostra conversazione, sette persone del team di José Andrés hanno perso la vita sul campo di battaglia per mano delle forze israeliane, N.d.R.). La crisi che sta avendo luogo lì è orribile. Possiamo trovare colpevoli ovunque, ma quello che sta succedendo ai civili è straziante: ci sono donne, bambini e anziani che cercano solo di superare la giornata, e penso che se c’è qualcosa che possiamo fare per aiutarli, dovremmo farlo. Ecco perché sono molto grato a José Andrés, che spunta ogni volta che c’è una crisi in qualunque parte del mondo. Sono un suo grande ammiratore. Anche Open Arms fa cose straordinarie da un decennio».

Nel 2019, Gere è balzato agli onori della cronaca internazionale per uno scontro con l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, che si era rifiutato di accogliere un’imbarcazione con 147 migranti a bordo bloccata al largo delle coste di Lampedusa. «Per puro caso» ricorda Alejandra «quando abbiamo sentito la notizia ci trovavamo in Italia, e lui mi ha detto: “Devo fare qualcosa, chiamerò Òscar, chiamerò Laura…”. Io ero incinta e non ho potuto accompagnarlo, ma gli ho detto di prendere una macchina, e che quando sarebbe arrivato per imbarcarsi sull’aereo per Lampedusa avrebbe trovato i biglietti ad aspettarlo. Quella notte ho parlato anche con Homer e gli ho detto: “Non vuoi andare lì ad aiutare tuo padre a salvare tutte queste vite?”. Ha risposto di sì e così ho organizzato tutto. Avevamo appena incontrato l’allora cancelliera tedesca Angela Merkel, per cercare di farle capire la gravità della questione, e Richard è riuscito a parlare con Pedro Sánchez dall’imbarcazione per chiedergli aiuto al momento di accogliere tutte quelle persone. Credo sia stato uno dei momenti più emozionanti al suo fianco», racconta Alejandra.

Come ha vissuto la posizione di Salvini in quel momento, signor Gere?

«Per me è molto difficile capire un movimento di estrema destra conservatrice, soprattutto in un Paese che è prettamente cristiano. In quelle ore non smettevo di chiedermi cos’avrebbe fatto Cristo in una situazione del genere, e il fatto è che Cristo accoglieva tutti come figli di Dio, tutti. Non avrebbe detto: “Salvate solo le persone bianche, quelle italiane o quelle cristiane”. Mi sembra abbastanza ridicolo. Sono stato sui barconi e ho incontrato personalmente molti rifugiati e migranti; ho avuto modo di ascoltare le loro storie e penso sia molto difficile non vedere in loro esseri umani uguali a noi. Chiederei, e spererei, che chi ha responsabilità di governo passasse un po’ di tempo con loro, capisse la situazione e non li demonizzasse. Ovviamente abbiamo lo stesso problema negli Stati Uniti, con persone squilibrate come Trump che sembrano odiare tutti quelli che non sono bianchi e allineati culturalmente con lui, ma non è così che funziona il mondo. Ci siamo dentro tutti insieme. Il nostro senso di sicurezza, la nostra felicità e il nostro successo devono essere universali. C’è una cosa molto bella che ha detto il Papa molti anni fa: “Non costruiamo muri, costruiamo ponti”. Oggi la crisi viene soprattutto da chi arriva dall’Africa, ma prima o poi ce ne saranno altre nella direzione opposta. Tutti avremo i nostri momenti difficili, ed è nostra responsabilità prenderci cura gli uni degli altri. Costa più energia non aiutare che aiutare».

Per concludere, quest’anno i giornali parlano molto di lei e della sua famiglia per il vostro imminente arrivo in Spagna. Che cosa si aspetta da questo Paese? Le piacciono gli spagnoli?

«Ne ho sposata una! Per me, andare a Madrid sarà una grande avventura perché non ho mai vissuto a tempo pieno fuori dall’America. E penso lo sarà anche per i miei figli. Per Alejandra sarà meraviglioso stare più vicino alla sua famiglia. È stata molto generosa a concedermi sei anni di vita nel mio mondo, quindi credo sia giusto che io gliene conceda almeno altri sei nel suo. In ogni caso, amo la Spagna e penso che lo stile di vita, come quello italiano, sia fantastico. Quindi non vedo l’ora di andarci».